
Stanno venendo al pettine, uno dopo l’altro, i nodi della giustizia italiana. La Corte europea per i Diritti dell’Uomo si accorge che il processo a Silvio Berlusconi forse non è stato equo. Forse, ma solo per caso, c’è stato accanimento giudiziario. Ovviamente, non per ragioni politiche, bensì per fatale congiuntura astrologica. Quella stessa fatalità, che ha indotto il pubblico ministero Luca Palamara a definire “necessario” il processo penale a carico di Matteo Salvini, per quanto fossero chiare l’inconsistenza e la strumentalità dell’accusa, in relazione a un atto di Governo pienamente legittimo. Che il Governo d’Italia fosse ostaggio di una Magistratura politicamente orientata, fino al punto da sottoporre a processo penale gli atti del Consiglio dei ministri, gli sembrava del tutto naturale. Cosa c’era di strano? D’altronde, il suo predecessore Antonio Di Pietro, da magistrato vincolato al rispetto delle leggi, aveva minacciato di “togliersi la toga”, pur di non applicare una legge dello Stato, ossia il decreto-legge Conso entrato già in vigore. E l’insubordinato, autoproclamatosi legibus solutus, non era stato invitato a togliersi la toga, bensì applaudito, coccolato e accontentato. Dunque, ciò che non è mai accaduto in alcuna parte del mondo – ossia l’esplicito atto di prevaricazione dell’ordine giudiziario sul potere politico – in Italia è divenuto normale. I fondamenti dello Stato di diritto sono stati stravolti e nessuno se n’è scandalizzato.
Almeno fino a ieri. Forse oggi qualcosa è cambiato. La scoperta del “sistema” Palamara; la squallida vicenda dei fascicoli giudiziari, originati dalle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara sulla “loggia Ungheria”, che rimpallavano su tavoli inappropriati, pronti a essere usati per fini di dossieraggio non istituzionali; lo scandalo della dottoressa Silvana Saguto, campionessa dell’antimafia, si presume personalmente coinvolta negli interessi, economici e relazionali, ruotanti intorno alle amministrazioni giudiziarie, da lei insediate e controllate; hanno aperto gli occhi agli italiani. È divenuto chiaro che la più grande “ammalata” d’Italia è proprio la “Giustizia”.
Nel cortocircuito istituzionale, innescato dalla prevalenza de facto dell’ordine giudiziario sul potere politico, abbiamo tutti da perdere qualcosa. Non perde solo la politica, perde in primo luogo la nostra convivenza. Basta riflettere su un dato: in fin dei conti, la potestas del pubblico ministero (la vera anomalia italiana) non consiste nell’esercizio della facoltà di fare, bensì di impedire. Se tale potere si estende a dismisura, prevale il “non fare”, piuttosto che il “fare”. L’interdizione esercitata sull’attività di Tizio paralizza altresì quella di Caio (il quale ha paura di incappare nella stessa sorte di Tizio). A distanza di tanti anni, si scoprirà magari che Tizio è colpevole di nulla, però nel frattempo la nostra convivenza si sarà impoverita, essendosi privata non solo dell’apporto di Tizio (direttamente interdetto), ma anche dell’attività dell’intimidito Caio, rimasto inerte.
Quanta ricchezza, per esempio, è stata direttamente sottratta a tutti noi, impedendo ai Riva, colpevoli di nulla, di gestire l’Ilva, la più grande acciaieria italiana? E quanti potenziali investitori si sono convinti che fosse meglio investire altrove, avendo saputo delle peripezie della famiglia Riva? E quanta ricchezza e quanti posti di lavoro sono stati sottratti ai siciliani dalle Amministrazioni giudiziarie controllate dalla dottoressa Saguto, tutte conducenti al fallimento delle aziende sequestrate e confiscate? E tutto questo, si badi bene, è avvenuto in via “preventiva”, non già a seguito di reati accertati, e non solo a carico di persone sospette, ma perfino di soggetti riconosciuti innocenti. Gli incolpevoli Riva e i numerosissimi, anonimi e incolpevoli, imprenditori siciliani sono stati privati delle loro aziende, i dipendenti sono stati licenziati, per il cattivo esercizio di un potere “impeditivo” che non conosce controllo e responsabilità. E questa è solo la parte visibile dell’iceberg. La parte nascosta è ancora più grande: ben pochi imprenditori intendono investire in Italia, nell’incertezza delle regole e nel rischio di un “impedimento” improvviso; ancora peggio in Sicilia, dove nessun imprenditore vuole correre il rischio di un’accusa inesistente in qualsiasi altra parte del mondo (cosiddetto concorso esterno), alla maniera dell’innocente Giulio Andreotti, e di vedersi sequestrata la propria azienda, salvo averla restituita fallita dopo un processo di “prevenzione” interminabile.
Insomma, il potere giudiziario absolutus è un grave vulnus alla democrazia e reca un danno immenso alla civile convivenza. Gli italiani se ne stanno rendendo conto, dopo l’ubriacatura giustizialista degli anni scorsi, da cui ha tratto alimento il partito neo-giacobino dei Cinque Stelle, e pare che le forze politiche liberali abbiano colto lo spirito dei tempi. Prima fra tutte la Lega, che appoggerà la raccolta delle firme (promossa dai Radicali), necessarie per sottoporre agli italiani una serie di quesiti referendari sulla questione della giustizia.
Non potranno mancare alcuni punti salienti. Ne indichiamo solo alcuni. La separazione delle carriere tra i magistrati che esercitano la funzione inquirente e requirente (pubblici ministeri) e quelli che esercitano la funzione giudicante (giudici propriamente detti) è un presupposto indispensabile, perché le parti processuali siedano in condizioni paritarie innanzi al Giudice super partes. E come possa ritenersi super partes e perciò “imparziale” un giudice che è collega di una “parte” rimane un mistero insoluto e insolubile. Se, in tutto il resto del mondo occidentale, chi investiga e poi accusa e chi giudica appartengono ad Amministrazioni diverse, una ragione ci sarà pure. Uno sguardo si deve volgere pure alla fantomatica “obbligatorietà” dell’azione penale, inidonea a vincolare il pubblico ministero, ma particolarmente idonea a offrirgli il velo, dietro cui celare la scelta delle indagini ad personam (ad Berlusconem o Salvinem oggi, ad Melonem domani). Non è il caso di introdurre, come negli altri Paesi, vincolanti indirizzi, governativi o parlamentari, sulle priorità dell’attività investigativa? Un altro nodo riguarda la cosiddetta custodia cautelare, che sarebbe meglio chiamare, senza ipocrisie, carcerazione preventiva (in attesa di giudizio). Il quesito referendario deve mirare a limitarne i presupposti giustificativi nell’ambito molto ristretto della criminalità violenta o terroristica, posto che la pena deve seguire, non precedere, l’accertamento giudiziale del reato (con condanna pronunciata all’esito di un giusto processo).
Siamo consapevoli che, per via referendaria, non tutti i nodi potranno essere sciolti, ma siamo consci altresì che questa è l’unica via percorribile. Al capezzale della più grande ammalata d’Italia non potranno stare i medici ufficialmente preposti alla cura. Dagli atti parlamentari è lecito attendersi nulla, perché l’attuale fase politica è caratterizzata da una maggioranza parlamentare composita, che potrà tutt’al più fronteggiare le emergenze sanitarie ed economiche, ma giammai potrà raggiungere un minimo di coesione sui temi della giustizia, in presenza di un forte schieramento neo-giacobino. È bene allora dare la parola al popolo italiano ed è compito di tutti i veri liberali contribuire a questa battaglia di civiltà, intrapresa dai Radicali e dalla Lega.
Aggiornato il 20 maggio 2021 alle ore 09:19