![Ddl Zan: la rivolta delle femministe](/media/5912405/wp2823265.jpg?anchor=center&mode=crop&width=370&height=272&rnd=132640756510000000)
“Siamo la metà del cielo e del genere umano. Non possiamo essere trattate come una minoranza, una sfumatura dei tanti colori dell’arcobaleno Lgbt come fa il Ddl Zan. Le donne siamo noi: non si possono chiamare donne i trans sulla base di una loro percezione, di una semplice dichiarazione o di manifestazioni esteriori come fa il Ddl Zan. Occorre emendarlo creando per i “trans” rimasti fisicamente maschi un’identità transessuale specifica”.
È questa la posizione della gran parte delle femministe italiane, scese in guerra contro quella parte del Ddl Zan (detto “contro l’omotransfobia”) che conferisce rilevanza soprattutto alla “identità di genere” separandola radicalmente dal sesso biologico; e che infatti la definisce (vedi Articolo 1- Definizioni) come “l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”.
Tutto questo porta molte femministe ad una rivendicazione identitaria e a temere varie conseguenze negative – per l’universo simbolico e per i diritti delle donne – dall’acquisizione da parte dei trans (se rimasti fisicamente maschi) dello status di “donne”. In effetti, nel Ddl Zan le fattispecie di misoginia (le istigazioni all’odio e alla discriminazione verso le donne) vengono menzionate con la dizione “discriminazioni fondate sul sesso” insieme a quelle relative a varie minoranze (come gli omosessuali, i transessuali e tutta la sfilza delle variazioni Lgbtqi+ oltre che a quelle relative alla disabilità). Insomma, le femministe vedono quella possibile acquisizione della denominazione e dello status di “donna” da parte di maschi “trans” che si autodefiniscono “donne” come un’usurpazione di titolo e di status che avrebbe conseguenze negative (tra cui una concorrenza sleale) che rischiano di annullare molti dei diritti acquisiti dalle donne. Ciò inficerebbe – secondo le femministe – decenni di lotte per l’emancipazione, per la privacy, per le pari opportunità, per la parità con gli uomini, per le quote rosa e per l’accesso a posti di vertice in aziende e istituzioni. Ma c’è di più: il timore delle femministe è che l’introduzione della “identità di genere”, se basata in pratica solo sull’auto-percezione, apra la strada ad episodi simili a quelli avvenuti in altre parti del mondo occidentale, dove è stato commesso lo stesso errore.
In California circa 270 detenuti, che si identificano come donne, hanno chiesto il trasferimento in carceri femminili, con la conseguenza che le detenute sono per lo più terrorizzate – come ha raccontato il Los Angeles Time – dopo che guardie le hanno avvisate che “gli uomini stanno arrivando”. In Canada, dove la “self-id” (l’autoidentificazione di genere sulla base di una semplice autocertificazione) è in vigore dal 2017, e dove la bizzarra immissione di detenuti in carceri femminili è già avvenuta, si sono verificate violenze sessuali, alcune gravidanze e casi di trasmesse sessualmente. E, ovviamente, le femministe canadesi sono insorte. In Olanda un uomo che dice di percepirsi donna da soli 15 mesi pretende di entrare in un convento femminile, proprio come accadrebbe in un racconto di Giovanni Boccaccio o di Pietro Aretino. Negli Usa e in Canada molti atleti, fisicamente maschi, hanno già ottenuto di partecipare alle competizioni femminili con ovvie conseguenze di imparità. Sono ormai diversi gli Stati americani che hanno dovuto fare marcia indietro. L’ultimo è stato il Mississippi lo scorso 12 marzo. Il problema potrebbe esplodere clamorosamente ai prossimi Giochi olimpici con effetti devastanti.
In Australia e Canada alcune “case rifugio” per donne in difficoltà non ricevono più finanziamenti statali perché le lobby Lgbt hanno ottenuto che esse fossero dichiarate “trans-escludenti” in quanto si rifiutano di ospitare maschi che si professano “donne”. In quei Paesi che riconoscono la autoidentificazione di genere (“self-id”) vari uomini già occupano cariche politiche e posti di responsabilità e di vertice che, in base alle “quote rosa”, dovrebbero essere riservati alle donne. In molti paesi sono in crescita le aggressioni sessuali da parte di uomini che si identificano come donne. La Bbc è giunta al punto di chiamare “pedofila” (usando il pronome personale “she”) un uomo che ha dichiarato di identificarsi come “donna”. Non è sfuggito, infine, alle femministe italiane l’intenzione, insita nel Ddl Zan, di favorire una propaganda di Stato a favore dell’ideologia antiscientifica chiamata “teoria del gender” (dell’irrilevanza del sesso biologico nel determinare l’orientamento sessuale e l’identità di gender); una propaganda che includerebbe quella sulla gestazione surrogata o “per altri” (detta anche “utero in affitto”) giustamente aborrita dalle femministe e non solo da loro. Il colmo è che tale propaganda della teoria del gender venga prevista nello stesso Ddl anche per i bambini delle scuole elementari e per i ragazzini delle scuole medie (quando la legge italiana prevede un’età minima di 14 anni per presumere consenzienti i rapporti sessuali di qualsiasi tipo).
La rivolta delle femministe italiane (già manifestatasi nei mesi passati da quando il Ddl fu presentato e poi, nell’ottobre 2020, approvato alla Camera) è esplosa il 10 aprile scorso quando 17 gruppi di femministe hanno diffuso un documento comune: “La formula identità di genere, al centro del Ddl Zan… viene oggi brandita come un’arma contro le donne… si vuole che la realtà dei corpi – in particolare quella dei corpi femminili – venga fatta sparire”. L’identità di genere “è il luogo in cui le donne nate donne devono chiamarsi gente che mestrua o persone con cervice, perché nominarsi donne è trans-escludente” è scritto nel documento delle femministe sottoscritto dalle maggiori sigle (Udi nazionale, Arcidonna, Associazione salute donna, RadFem Italia, In Radice, Se non ora quando Genova, Associazione donne insieme, Arcilesbica ed altre). Il loro documento prosegue: “Non siamo una sfumatura dell’arcobaleno Lgbt, siamo la maggioranza del Paese”. E poi: “La lotta alla misoginia necessita di un percorso assolutamente diverso”.
“Il genere in sostituzione in sostituzione del sesso diviene il luogo in cui tutto ciò che è dedicato alle donne può essere occupato dagli uomini che si identificano in donne o che dicono di percepirsi donne: dagli spazi fisici, alle quote politiche destinate alle donne; dai fondi destinati alla tutela delle donne contro la violenza maschile, alle azioni positive, alle leggi, al welfare per le donne”.
La richiesta dei 17 gruppi femministi è chiara: emendare in Senato il Ddl Zan sostituendo l’espressione “identità di genere”, definita “non ammissibile” anche perché “produce un pericoloso disordine simbolico”, e sostituendola “con un più limpido e inequívoco transessualità”. Sulla stessa linea si sono pronunciate diverse note femministe. Luana Zanella, femminista e portavoce della Federazione dei Verdi ha dichiarato che il Ddl Zan “più che il desiderio di proteggere le persone si vuole spianare la strada all’autoidentificazione come uomo e donna”. Marina Terragni, femminista storica ha denunciato il pericolo per bambini e ragazzini che “con la scusa dell’identità di genere si ritroverebbero in veri e propri giri di propaganda sull’utero in affitto”. Anna Paola Concia, attivista Lgbt, ha definito il Ddl “divisivo ed ideologico” per le “discriminazioni legate al sesso (cioè quelle riguardanti la misoginia, ndr) che dovrebbero uscire dalla legge”. Sulla stessa linea si è pronunciata la filosofa femminista Francesca Izzo, che fu tra le fondatrici del gruppo “Se non ora quando”, e che propone di sostituire l’espressione “identità di genere” con “identità transessuale”.
“Le donne non sono una categoria, ma la metà del genere umano… ci hanno messo decine e decine di anni per essere riconosciute come la metà dell’umanità e non considerate un’appendice inferiore dell’uomo. Nel testo della legge Zan, con un balzo all’indietro, vengono di nuovo ricondotte a uno dei tanti gruppi e sottogruppi che costellano la variamente svantaggiata umanità. Non solo ma con l’uso del termine “identità di genere” si intende affermare e legittimare che l’attribuzione dell’identità sessuale di una persona (uomo/donna) si fonda sulla semplice manifestazione della sua volontà soggettiva, indipendentemente dal suo sesso” invece “secondo la nostra cultura costituzionale, la nozione di identità di genere presuppone quella di sesso e di identità sessuale” ha scritto Izzo su Huffington Post il 15 aprile scorso.
Le conseguenze paradossali del Ddl Zan sono che “uomini transgender possono esigere di usufruire delle pari opportunità, di partecipare alle competizioni femminili, di accedere a luoghi e spazi riservati alle donne”. “Inoltre – ha aggiunto la stessa Izzo – chiunque rivendicasse la differenza tra una donna di sesso femminile e una donna di gender femminile potrebbe essere accusato di omotransfobia” come è già accaduto e accade. Il riferimento è al caso famoso di Joanne Kathleen Rowling, la famosa autrice di Harry Potter vituperata nella primavera del 2020 dalle lobby Lfbt e sui social per aver difeso Maya Forstater, la ricercatrice licenziata dopo il tweet in cui sosteneva che “la differenza sessuale è biologica”. Rowling fu addirittura perseguitata per essersi detta donna e aver rifiutato la definizione di “persona che mestrua”.
In Francia lo scorso autunno è scoppiato il caso della filosofa Sylviane Agacinski estromessa dalla comunità accademica perché contraria alla maternità surrogata. In Norvegia, dove è stata approvata una normativa simile a quella messa a punto da Zan, la deputata Jenny Klinge è stata denunciata per avere detto che “solo le donne partoriscono”. A Vancouver un padre, Robert Hoogland, è finito in galera perché si ostinava a voler impedire alla figlia 13enne di assumere i bloccanti della pubertà. Il 10 aprile nella città canadese si è svolta una manifestazione no-partisan in suo sostegno, dove gli oratori erano protetti da guardie giurate. In Italia nel marzo scorso alcuni circoli Arci hanno chiesto l’espulsione dell’associazione Arcilesbica perché sostiene che le persone trans non sarebbero da considerarsi per la loro identità di genere, ma per il sesso biologico.
È fin troppo facile prevedere che casi analoghi a questi ultimi ed a quelli che sono accaduti nei Paesi come gli Usa ed il Canada dove il “self-id” è stato adottato sin dal 2017, potrebbero accadere anche in Italia se l’autoidentificazione di genere (self-id), prevista dal Ddl Zan, dovesse diventare legge. Dietro la polemica femminista contro l’identità di genere c’è anche un dissidio interno al mondo femminista tra il “femminismo della differenza”, che ispira le femministe come Izzo e le altre sopramenzionate ed il “nuovo femminismo” detto “intersezionale” (di cui in Italia Laura Boldrini è un fulgido esempio). Quest’ultimo tende a collegare e ad unificare le lotte delle donne per la parità (femminismo liberale) o per le specificità femminili (femminismo della differenza) con le lotte in favore degli immigrati, dei gay, delle lesbiche, dei transessuali e delle altre varie categorie Lgbt. Il presupposto ideologico di questo nuovo “femminismo intersezionale” è che l’Occidente sarebbe una civiltà oppressiva, afflitta nei suoi stessi geni da discriminazioni, razzismo e fascismo “sistemici” e che il paradiso delle donne può realizzarsi solo quando tutte le istituzioni e l’intera cultura saranno state cancellate e distrutte, grazie all’opera di decostruzione sinergica ad opera delle lotte congiunte e unificate di tutte le minoranze svantaggiate. Si tratta di una (patetica) reviviscenza del mito rivoluzionario e dei deliri marcusiani sessantotteschi. Gli strali di Izzo e delle femministe tradizionali sono rivolte, anche, contro questo nuovo femminismo “intersezionale”, “rivoluzionario” e “radical chic”.
Nonostante tutto questo, il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, pochi giorni fa ha detto serafico e probabilmente ignaro del magma incandescente in cui sta mettendo le mani: “Ho incontrato il nostro deputato Alessandro Zan. Gli ho confermato il nostro impegno, perché il Ddl Zan diventi legge”. Con Letta la gloriosa marcia del Pd e della sinistra verso un partito radicale “intersezionale” che rappresenta soprattutto le minoranze (oltre ai dipendenti pubblici e pensionati) continua ed anzi accelera. Dopo aver perso gran parte dei ceti popolari con la politica dell’immigrazione illimitata e indiscriminata, con il Ddl Zan, rischia di perdere anche le femministe e le donne di sinistra.
Aggiornato il 28 aprile 2021 alle ore 09:27