
È indubbio che il sistema Paese deve ripartire dopo la frenata brusca ed inaspettata generata dalla pandemia indotta dal Coronavirus. Solo con la riapertura del Paese si possono evitare danni sociali ed economici verosimilmente ancora più gravi di quelli sanitari creati dal Covid-19.
Dare un obiettivo comune con presupposti medico-scientifici valutati e valutabili a breve/lunga scadenza, come quello della vaccinazione, è una strategia fondamentale. Tuttavia, in questa fase di attuazione si deve fare attenzione, e soprattutto chiarezza, sui limiti delle procedure proposte e sulla comunicazione usata, la quale, se non appropriata, può generare confusione tra la popolazione, con ulteriore peggioramento della situazione reale vissuta, come spesso è accaduto in questi ultimi mesi.
Prima di tutto, deve essere chiarito che cosa è un vaccino e che cosa è un farmaco. Il vaccino è una preparazione biologica in grado di fornire una immunità acquisita attiva contro un particolare tipo di infezione. La pratica della somministrazione di vaccini si esplica a scopo preventivo. Essa è in grado di sfruttare attivamente la memoria immunologica del sistema immunitario, consentendo al corpo umano di sviluppare un sistema di difesa contro un microrganismo quale un virus o un batterio. L’efficacia di un vaccino dipende, quindi, dalla capacità dello stesso di attivare il sistema immunitario del soggetto (detto anche ospite), al quale è stato inoculato, e dal metabolismo dell’ospite di sintetizzare le adeguate molecole del sistema.
Un farmaco è una molecola, naturale o sintetica, capace di indurre modificazioni funzionali in un organismo vivente, attraverso un’azione fisica o chimica in grado di curare una specifica malattia quando un individuo lo abbia sviluppato. Il vaccino, quindi, non evita che la persona venga infettata dal virus, ma, verosimilmente, attivando le difese immunitarie dell’individuo al quale il vaccino è stato inoculato, fa sì che il virus non sviluppi una malattia clinica manifesta o, se la sviluppa, questa sia in forma meno severa, senza necessità di ospedalizzazione. Se ne deduce che la vaccinazione non è sinonimo di “assenza di contaminazione dal virus”.
L’unico modo oggi disponibile per essere ragionevolmente sicuri che non si è veicoli di propagazione del virus (o untori, secondo Alessandro Manzoni) è eseguire il tampone molecolare naso-faringeo. Tale metodica è tesa ad evidenziare, con tecniche di biologia molecolare molto sofisticate, se il virus è presente in quel momento nel nostro corpo. Quindi, ben vengano alcune decisioni che autorizzano la mobilità delle persone quando queste dimostrano di non essere infettate dal virus, esibendo tamponi molecolari negativi eseguiti nelle ore precedenti i loro spostamenti. Molto meno sicuro, o forse per niente sicuro, al fine di evitare la diffusione del virus, è chiedere alle persone di esibire un “certificato di avvenuta vaccinazione”. Per far sì che questa seconda raccomandazione possa avere una verosimile efficacia contro la diffusione della pandemia, bisognerà aver vaccinato un grandissimo numero di persone (se non tutte), al fine di ottenere la così detta “immunità di gregge”, auspicando che nel frattempo il virus non muti e che il vaccino inoculato sia in grado di combattere le varie varianti biologiche, frutto delle mutazioni, che si possono presentare.
Qualsiasi divieto o limitazione del diritto di circolazione e soggiorno, costituzionalmente riconosciuto ai cittadini su tutto il territorio nazionale dall’articolo 15, deve tener conto della natura preventiva, ma non risolutiva del vaccino e delle possibilità che il vaccinato contragga e trasmetta il virus, come di recente confermato anche dal ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili, professor Enrico Giovannini. La riduzione di un diritto inviolabile, siccome attinente alla libertà personale, può essere giustificata solo dall’esigenza di tutelare il preminente e prioritario diritto alla salute, definito – non a caso – dall’articolo 32 della Costituzione “fondamentale dell’individuo” (e quindi presupposto ossia “fondamento” di ogni altro diritto) e “interesse dalla collettività”, ossia a dimensione sociale, atteso il suo rilievo anche intersoggettivo ad ogni livello, fino a quello massimo dello Stato-comunità.
La riapertura del Paese non può che muovere dal ripristino della libertà di circolazione e di soggiorno, che è evidente ed intuitiva pre-condizione della ripresa economica. Le attività produttive di ricchezza non possono infatti prescindere dal movimento di persone, cose e servizi senza vincoli, che non siano strettamente necessari alla tutela della salute, come sopra delineata. Non è certamente tale il cosiddetto “passaporto vaccinale” né l’imposizione di divieti subordinati all’avvenuta vaccinazione, che, pur se utili a creare l’immunità di gregge non sono in grado, secondo i dati scientifici più attendibili (e non strumentalizzati), di impedire la trasmissione del virus, ma (ed è peraltro risultato significativo) le conseguenze più gravi di un eventuale contagio.
La mobilità delle persone non è pertanto ancorata al vaccino, ma semmai al tampone molecolare, in grado di tracciare il virus e interdire i movimenti a chi lo ha contratto, fino alla guarigione. Chiarire fin d’ora gli effetti della campagna vaccinale eviterà equivoci e falsi allarmi e consentirà di impostare su basi scientificamente solide gli atti legislativi e amministrativi (statali e regionali) necessari alla ripresa economica e sociale.
(*) Docente di Diritto costituzionale nell’Università di Genova e di Diritto regionale nelle Università di Genova e “Carlo Bo” di Urbino
(**) Già docente di Cardiologia all’Università di Brescia e di Organizzazione Sanitaria all’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia
Aggiornato il 25 marzo 2021 alle ore 09:09