Campus Usa in preda al neo-maccartismo liberal

Le facoltà umanistiche delle Università americane, fino a pochi anni fa templi del canone euro-occidentale (tradizione classica, rigore filologico-scientifico, libertà di espressione e insegnamento pluralistico), sono attualmente attraversate da un movimento neo-puritano intollerante, iconoclasta e violentemente anti-occidentale. Questo movimento esprime un moralismo censorio ed inquisitorio e genera un’isteria collettiva ed un neo-maccartismoliberal” profondamente illiberale, aggressivo e intollerante (simile al maccartismo anti-comunista del Secondo dopoguerra) capace di imbastire vere cacce alle streghe, travolgendo la vita di chi si oppone e resiste in nome della ragione, e della libertà di pensiero, di opinione e di parola. Inoltre esso, anche se nato su esigenze antirazziste, genera un nuovo razzismo e un nuovo segregazionismo. Non sono esagerazioni.

Protagonista di questo movimento è la cosiddetta “woke generation” (generazione sveglia): studenti e professori divenuti chierici della “cancel culture” e dell’ideologia del politicamente corretto, più che a studiare e ad insegnare sono dediti a passare al setaccio – sulla base di una etica anti-discriminatoria – i testi dell’intera cultura occidentale. Ne nascono campagne di “purificazione” e cancellazione dei testi e del loro linguaggio, che diventano anche campagne inquisitorie sul linguaggio, sulle opinioni e perfino sulla vita privata di studenti e professori nei campus.

Il risultato è che si è costituito nei campus un vero meccanismo informale di censura, chiamato “cancel culture”, capace di mettere all’Indice (come facevano un tempo le chiese) e condannare alla damnatio memoriae non solo libri ma anche persone. La campagna di purificazione si abbatte, infine, spesso su docenti e studenti che si oppongono alla pseudo-critica moralista del “movimento” e che sono alla fine licenziati o costretti alle dimissioni.

La cancel culture è il nuovo maccartismo della generazione woke” – ha scritto il celebre avvocato penalista, Alan Dershowitz nel suo recente libro (intitolato appunto “Cancel Culture. The latest attack on free speech and due process”). E ha aggiunto: Come il vecchio maccartismo, anche quello nuovo pone fine a carriere, distrugge eredità, scioglie famiglie e provoca suicidi, senza alcuna parvenza di giusto processo o opportunità di confutare le accuse spesso false o esagerate.

I campus americani sono divenuti così un terreno di una permanente caccia ai peccati e ai peccatori, secondo il decalogo anti-discriminatorio ed anti-razzista della neo-religione politicamente corretta. Quasi tutto si svolge all’insegna di alcune nuove espressioni. Come “trigger warnings” (avvertenze di allarme); “hate speech” (discorsi di odio), “safe space” (spazio sicuro) e “micro-aggression” (micro-aggressione). I “trigger warnings” sono avvisi che i professori sono obbligati a premettere se qualcosa in un libro o in un corso potrebbe contenere qualche “hate speech” e causare perciò una “forte risposta emotiva” negli studenti.

Anche le biblioteche dei campus mettono “trigger warnings” sui testi letterari e filosofici e persino sulle opere di narrativa: gli studenti sono avvisati, per esempio che Ovidio con le “Metamorfosi” rappresenta un pericolo per gli stupri che vi descrive, che William Shakespeare nel “Mercante di Venezia” strizza l’occhio all’antisemitismo, o che Herman Melville in Moby Dick non vi fa comparire nemmeno una donna e non è “corretto” con le balene. Oppure che Harper Lee nel “Il buio oltre la siepe” non è esente da pregiudizi razziali, o che Platone e Aristotele (come tutti ai loro tempi) ammettevano la schiavitù.

La lista del ridicolo e infantile moralismo fuori luogo potrebbe continuare. Costituisce un hate speech qualsiasi opinione o espressione che richiami direttamente, o indirettamente, una discriminazione etnica o sessuale o religiosa, anche se le intenzioni dell’autore fossero anti-discriminatorie. È il caso di Mark Twain in “Le avventure di Huckleberry Finn”, che Ernest Hemingway (anche lui “scorretto” con i tori e con le donne) considerava il più grande romanzo americano. Vi si racconta la fuga comune verso la libertà di un ragazzo bianco e di uno schiavo nero, legati da una commuovente amicizia e solidarietà. Ma la sua colpa imperdonabile sarebbe che vi si usa spesso la parola “nigger”. E questo sarebbe un “hate speech” anche se Twain – e non solo lui – non poteva nemmeno immaginarlo.

Ultima vittima è il romanzo “Uomini e Topi” di John Steinbeck viene ostracizzato non solo per la violenza e per il linguaggio scurrile, ma anche per il personaggio di Crooks, un uomo di colore discriminato per motivi razziali dai braccianti e dalla moglie del “padrone”, tra l’altro descritta come una donna sensuale e superficiale che coltiva il sogno di diventare una star del cinema. Nel capolavoro di Steinbeck – agli occhi infantili e moralisti del politicamente corretto – c’è abbastanza presunto razzismo e sessismo perché venga messo all’indice. Incredibile, ma vero. L’obbiettivo dichiarato del movimento è di fare dell’intero campus universitario un “safe space” (spazio sicuro). Un gruppo di studenti della Columbia University ha fatto scivolare sotto la porta di ogni stanza del campus un volantino “contro l’omofobia”. Il titolo del volantino dichiarava: “Voglio che questo spazio sia uno spazio più sicuro”.

Un gruppo di studenti dell’Hampshire College ha ampliato il concetto di safe space fino a far annullare il concerto di una band perché aveva “troppi musicisti bianchi” e ciò non li faceva sentire “al sicuro” (safe). L’antirazzismo fondamentalista diventa così razzismo anti-bianco. E diventa anche segregazione razziale. Può sembrare incredibile ma il prossimo 25 aprile, nella rinomatissima Columbia University di New York, vi saranno sei cerimonie distinte di laurea: una per i nativi americani, una per i neri, una per i latini, una per gli asiatici, una per i redditi bassi e, infine, una per gli studenti Lgbt. Ben 75 college americani hanno cerimonie di laurea per soli neri e il 43 per cento dei college offre sale separate secondo la razza. L’antirazzismo ricrea la segregazione. Paradossale, ma vero. Al fine di fare di tutto il campus uno spazio sicuro, il movimento previene e persegue poi le “micro-aggressioni” intromettendosi nel linguaggio e nelle opinioni degli studenti e dei professori.

È, per esempio, “micro-aggressione” chiedere a un asiatico o a un latino-americano “dove sei nato?”, perché questo implica che lui (o lei) non sia un vero americano. “Micro-aggressione” sarebbe per esempio anche dire “non sono razzista: ho molti amici neri”. Persino dire che “l’America è la terra delle opportunità”, sarebbe una micro-aggressione, perché implicherebbe che uno studente delle minoranze “deve lavorare più duramente per raggiungere il successo”. È vietato persino dire che “l’America è un melting pot, perché l’espressione venne usata per la prima volta in un romanzo del 1892, “I figli del ghetto”, dallo scrittore ebreo Israel Zangwill, sospettato di “assimilazionismo etnico”.

Tutto diventa così micro-aggressione, discriminazione e razzismo. Questo è il punto che genera isteria e intolleranza. In alcuni campus è stata abolita persino la parola “stupro”, perché ridurrebbe le donne a “vittime che hanno bisogno di protezione”. Così, il nuovo codice etico-linguistico di Princeton oggi non ammette più la parola “stupro”. Lo si chiama, in ossequio al sessualmente corretto, “penetrazione non consensuale”, espressione oggi adottata da ben 700 sui circa 800 campus d’America.

Alcuni atenei hanno persino pubblicato dei codici linguistici (“speech code”) nell’intento di disciplinare il linguaggio dei componenti del campus, e sottopongono a sanzioni tutti coloro che si abbandonano a un linguaggio “irrispettoso”. Sono una specie di decalogo e di codice penale per peccati-reato che, in apparenza, sono solo linguistici, ma in realtà sono anche di pensiero. Il primo codice di questo genere fu redatto nel 1988 dall’Università del Michigan.

Oggi il 65 per cento dei college hanno politiche ufficiali che sanzionano le scorrettezze linguistiche e ideologiche. Ad Harvard le matricole hanno subito pressioni da parte di funzionari del campus, perché firmassero un giuramento promettendo di agire con “civiltà” e “inclusività” e affermando che “la gentilezza occupa un posto alla pari con la realizzazione intellettuale”. A Berkeley, funzionari del campus chiedono a docenti e studenti di eliminare “espressioni e parole potenzialmente offensive” dal loro vocabolario. La Troy University dell’Alabama ha vietato “qualsiasi commento o comportamento che consista in parole o azioni sgradite o offensive per una persona in relazione a sesso, razza, età, religione, origine nazionale, il colore, lo stato civile, la gravidanza, la disabilità o lo status di veterano”.

All’Università di Wake Forest, in North Carolina, c’è un apposito modulo per denunciare qualche collega o qualche professore per uno dei peccati di discriminazione da indicare con una crocetta: razza, abilità fisiche, nazionalità, religione, età, situazione finanziaria, orientamento sessuale, gender. La delazione viene incoraggiata. Così cominciano le cacce alle streghe. Il presidente dello Smith College, Kathleen McCartney, ha dovuto chiedere scusa agli studenti soltanto perché un docente, Wendy Kaminer, aveva difeso l’uso della parola “negro” nei romanzi. Nel tumulto seguito, l’Associazione degli studenti ha scritto una lettera al rettore dichiarando che “se lo Smith College non è sicuro per uno studente, non lo è per tutti gli altri studenti”.

Alcuni professori hanno dovuto lasciare l’insegnamento, in seguito a vere e proprie campagne e chiassose gogne ai loro danni, nate da una semplice svista o da una battuta o da un semplice lapsus. È certamente sorprendente che questo becero moralismo infantile e intollerante stia diventando la cultura dominante nelle facoltà umanistiche delle Università americane. Tanto più che tutto questo viola chiaramente la Costituzione americana, dato che sono violate la libertà di parola e di espressione e che sia nata una vera censura liberal “di sinistra”, giustificata da “buone intenzioni” anti-discriminatorie.

Tuttavia, alcuni giuristi di varie Università americane si sono messi a costruire argomentazioni legali per giustificare le censure politicamente corrette. Si è arrivati a stabilire due principi. Primo, la censura non sarebbe una limitazione alla libertà di parola, perché servirebbe a distinguere un’opinione da un’offesa ad una minoranza svantaggiata. In secondo luogo, la censura liberal sarebbe ammissibile perché non vale per tutti: donne e neri possono dire liberamente quel che vogliono contro la società dei maschi bianchi cristiani, ma non il contrario. La discriminazione contro questi ultimi sarebbe accettabile, perché orientata contro la “colpevole” cultura bianca occidentale, che sarebbe “sistemicamente razzista, schiavista e colonialista”. Ciò giustificherebbe il razzismo anti-bianco occidentale e il bizzarro auto-razzismo di intellettuali bianchi, cresciuti nella cultura occidentale che odiano la propria cultura e la razza bianca. Un caso evidente di odio di sé.

La Elon University in North Carolina di recente ha organizzato un evento per soli bianchi per “auto-processare” la “complicità nell’ingiustizia” e cioè per parlare apertamente di come con il loro linguaggio e la loro cultura “traumatizzano le persone di colore”. Travolta dalle polemiche, l’Università ha dovuto annullare l’evento. Ma l’episodio è molto significativo, perché mostra quanto il fenomeno affondi le sue radici nel senso di colpa degli occidentali bianchi nei confronti delle altre civiltà e delle altre etnie. Un senso di colpa ormai anacronistico, ma su cui i nemici interni della cultura occidentale, come sono gli intellettuali divenuti chierici del politicamente corretto, fanno leva per distruggerla, dicendo o fingendo di ritenerla “sistemicamente” discriminatoria e razzista.

Ovviamente, questa è una grossa sciocchezza anche perché la civiltà occidentale è l’unica che abbia inventato e sposato il liberalismo, senza il quale nemmeno la generazione woke americana saprebbe cosa siano la discriminazione ed il razzismo, né sentirebbe il dovere di combatterli. Inutile farlo notare ai chierici woke. La loro isteria non ammette ragioni, perché sono animati da un primigenio odio per la propria cultura. Un patologico paradossale e tragicomico odio di sé.

Aggiornato il 22 marzo 2021 alle ore 10:05