Le macerie della sinistra

Enrico Letta, nel discorso all’assemblea del Partito Democratico che lo ha eletto segretario, ha toccato molti aspetti di politica italiana ed europea e ha annunciato qualche battaglia: dal sempiterno ius soli, al diritto di voto ai sedicenni, alle politiche migratorie. A volo d’uccello ha poi toccato altri temi, dalle tasse alla lotta alle disuguaglianze, dalla pandemia alle nuove tecnologie, alle politiche green.

Un discorso colto, infarcito di citazioni e richiami eruditi, ma privo di concretezza. Non ha detto, ad esempio, cosa intenderà proporre per riformare il sistema fiscale in senso progressivo, cosa proporrà per ricerca e università o per conciliare le politiche ambientali con quelle infrastrutturali, non ha detto quali politiche indicherà per dare lavoro ai giovani e alle donne o per garantire accoglienza e integrazione ai migranti. Ampi propositi, dunque, ma niente di nuovo sotto il sole.

La parte più interessante del suo intervento, sebbene nascosta e mediaticamente meno accattivante, è stata però un’altra. E merita di essere portata allo scoperto perché ripete un vizio di fondo di un certo tipo di intellighenzia di sinistra, vizio tanto radicato, quanto suicida.

Andiamo con ordine. Letta si è dato il compito di rifondare il Partito Democratico. Lo ha enunciato esplicitamente aprendo alla discussione interna, auspicando un incontro col Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, incoraggiando coalizioni inclusive in vista del prossimo voto nazionale.

Discorsi molto generici anche questi. Non così, invece, il motivo “etico” sotteso alle scelte politiche più recenti, che Letta sa essere state profondamente divisive e che hanno portato alla sua segreteria.

Ha detto più o meno questo: il Pd è stato fin qui costretto a governare e a farlo anche con i Cinque Stelle per evitare che la destra allontanasse il paese dall’Europa. La smania di potere ha sì avvinto come l’edera le correnti del partito e creato guerre fratricide, ma dietro queste scelte c’era un’esigenza nobile: salvare il Paese.

Questa narrazione ricalca un modo di ragionare bacato alla radice, una convinzione tanto antica quanto indimostrata: la superiorità della sinistra sulla destra. A differenza di questa, quella sarebbe portatrice di verità e salvezza, sarebbe l’incarnazione di una politica rivelata e, proprio perché salvifica, giustificherebbe qualsiasi alleanza.

Le cose non stanno così: la sinistra e il Pd hanno governato non per salvare il Paese da un non meglio precisato disastro politico, ma per il potere in quanto tale, esercitarlo, mantenerlo e allargarlo a livello centrale e periferico, nelle strutture e nelle aziende statali e parastatali, nelle correnti della magistratura e nella Pubblica amministrazione. Anche ad ammettere che nella destra vi siano sozzure ideologiche, non è per mondare il Paese da queste che il Pd ha fatto di tutto per governare senza vittoria nelle urne, ma per mantenere le rendite di posizione che solo il potere attivo può garantire.

Questo mascheramento della realtà nasconde un’altra distorsione. Le regole della democrazia e lo spirito democratico, come scrisse Norberto Bobbio, non tollerano più di tanto che la storia sia dirottata forzatamente su strade diverse da quelle che avrebbe battuto se l’ordinario fluire delle regole fosse stato rispettato. E non lo tollerano neppure se il dirottamento ha l’ardire di perseguire il “bene del Paese”, perché il bene è tale solo se coincidente con quello deciso della maggioranza degli elettori, non dalla maggioranza degli uomini di palazzo.

Una politica di questo genere finisce per distruggere, proprio, lo spirito democratico e, in una sorta di eterogenesi dei fini, per divorare chi l’ha partorita.

Se Enrico Letta non saprà rovesciare i piani dell’azione politica, sarà divorato anche lui dall’ingordigia degli uomini del palazzo. E questo non sarebbe un bene perché il gioco e la stabilità democratica ne uscirebbero ulteriormente ammaccati. Buon lavoro, Enrico.

(*) agiovannini.it

Aggiornato il 16 marzo 2021 alle ore 10:02