
Non occorre scervellarsi a scoprire se Mario Draghi sia di destra o di sinistra. È tempo perso. Lui non sta di qua né di là: è banchiere al midollo. Pensa da banchiere, agisce da banchiere e diffida del prossimo da banchiere. È un dato di fatto che offre la chiave di lettura delle decisioni del Draghi politico. Che mandano in bestia a fasi alterne gli uni e gli altri degli schieramenti in campo. Nei giorni scorsi è toccato alla sinistra rimediare un ceffone dall’inquilino di Palazzo Chigi. La vicenda è stata rubricata dai media come “la grana della Mckinsey”. L’iniziativa ha coinvolto il ministro dell’Economia, Daniele Franco, responsabile della redazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) da inviare a Bruxelles entro il prossimo 30 aprile per ricevere la prima tranche dei Fondi stanziati dall’Unione europea sul programma Next Generation Eu. Il timore di bucare la scadenza ha consigliato all’inner circle del premier di chiedere aiuto alla società di consulenza Mckinsey & Company, un colosso mondiale nel settore del project-management, nella definizione del documento progettuale.
Perché proprio la Mckinsey? Si possono azzardare ipotesi. Probabile che sia stato il ministro per la Transizione digitale, Vittorio Colao, a suggerirne il coinvolgimento, avendola frequentata a lungo nella vita professionale. Al pari di Corrado Passera, Alessandro Profumo, Paolo Scaroni, Silvio Scaglia, Francesco Caio e Yoram Gutgeld, per citare i più noti, Vittorio Colao in Mckinsey è stato risorsa manageriale di primo livello. La sinistra, benché impegnata in diatribe scarsamente concludenti sulla nomina del segretario del Partito Democratico al posto del dimissionario Nicola Zingaretti, l’ha presa malissimo. La critica si è focalizzata sul sospetto che il Governo Draghi, ripetendo l’errore politico di Giuseppe Conte sulla governance del Recovery plan, volesse affidare a consulenti “tecnici” esterni l’individuazione delle strategie di pianificazione e implementazione degli assi strategici per la ripresa economica del Paese, esautorando dalla catena esecutivo-decisionale i vertici ministeriali, la Pubblica amministrazione e il Parlamento. Se fosse vero non avrebbero torto a protestare: è l’organo legislativo la sede naturale nella quale costruire le linee direttrici del futuro della nazione, non lo studio professionale di qualche accorsato team di teste d’uovo.
Ma non è la verità. La questione è molto più banale e allo stesso tempo più cruda di quanto si voglia far credere. Lo schema di ragionamento del premier è lineare: le carte predisposte dal precedente governo per convincere i burocrati di Bruxelles a dare il via libera all’erogazione dei fondi per l’Italia non l’hanno convinto e visto che il tempo che residua alla scadenza della presentazione del Piano è limitatissimo, Draghi, attraverso il titolare del ministero dell’Economia e delle Finanze, ha chiesto a chi per mestiere sa scrivere i progetti e sa valutare la congruità dei numeri che vi sono appostati di valutare se la proposta italiana riesca o meno a superare il vaglio degli organismi istruttori della Commissione europea. Lo ha spiegato il ministro dell’Economia, Daniele Franco, nella nota diramata per troncare sul nascere una polemica in apparenza priva di senso. Recita il comunicato stampa ministeriale numero 44 dello scorso 6 marzo: “Gli aspetti decisionali, di valutazione e definizione dei diversi progetti di investimento e di riforma inseriti nel Recovery plan italiano restano unicamente in mano alle Pubbliche amministrazioni coinvolte e competenti per materia... In particolare, l’attività di supporto richiesta a McKinsey riguarda l’elaborazione di uno studio sui piani nazionali “Next Generation” già predisposti dagli altri paesi dell’Unione Europea e un supporto tecnico-operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano”.
Il Governo chiede alla società di consulenza un benchmark per comparare ai fini della congruità il progetto italiano ai Piani predisposti dagli altri Paesi Ue e per valutare se le proposte progettuali che integrano il Piano nazionale siano o meno indirizzate a colpire i target strategici richiesti dalla Commissione europea e condivisi dal Governo italiano. Mario Draghi prima di metterci la faccia con gli interlocutori in Europa vuole essere certo che ciò che è stato scritto rispetti i canoni di un effettivo rilancio del Paese dopo la crisi pandemica, colga i risultati attesi e risponda positivamente all’impatto ambientale-tecnologico-occupazionale previsto. Il premier non vuole sorprese scoprendo a giochi fatti che nella documentazione prodotta siano stati inseriti numeri a casaccio pur di ottenere credito e denari da Bruxelles. Penserete: che malfidato questo Draghi. Se non fossimo la Patria dei ludi cartacei della burocrazia e del sottovalutato genere letterario della progettazione fantasy finalizzata all’ottenimento negli anni di un oceano di risorse finanziarie europee per realizzare una coesione territoriale di cui non vi è traccia, potremmo sentirci offesi dal comportamento del premier. Ma siamo nel Paese plasmato da decenni di potere della sinistra sia nazionale sia regionale e locale, per cui se fossimo nei panni di Draghi avvertiremmo la medesima diffidenza verso l’esistente in materia di programmazione strategica e progettazione complessa.
Chiamare in partita la McKinsey è stato come un pugno assestato in pieno volto ad alcuni esponenti del Partito Democratico. Non a caso, chi l’ha presa peggio è stata la casta sacerdotale degli “economisti-sociologi” che, da quando sono in ballo i finanziamenti europei, ha blindato in nome e per conto del partito la “casamatta” della pianificazione strategica territoriale. Basta scorrere la lista degli arrabbiati per farsi un’idea. Nell’ordine: Fabrizio Barca, “gran maestro” negli Anni Novanta del Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione presso il Ministero del Tesoro nonché ministro per la Coesione territoriale del Governo Monti; Giuseppe Provenzano, prima ricercatore poi vice-direttore di Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) nonché ministro per il Sud nel Conte bis e redattore senior del Piano nazionale di ripresa e resilienza finito sotto la lente d’ingrandimento di Mario Draghi; Francesco Boccia, capo del Dipartimento per lo Sviluppo delle Economie territoriali nel secondo Governo Prodi nonché ministro per gli Affari regionali e le autonomie nel Conte bis; Antonio Misiani, un’esperienza lavorativa nella formazione professionale, dal 2009 vicepresidente di Legautonomie (Associazione autonomie locali) nonché viceministro dell’Economia e delle finanze nel Conte bis. Per costoro, ma altri si aggiungeranno al cahier de doléance, lo schiaffo di Draghi è stato delitto di lesa maestà.
Si saranno domandati attoniti: perché il premier ci fa questo, si rivolge agli estranei quando ci sono montagne di studi e di report elaborati nei santuari del pensiero economico-sociologico della sinistra? Non siamo nella testa del banchiere dallo sguardo di ghiaccio, purtuttavia cogliamo traccia di una novità importante, segno che non tutte le cattedrali sono come i diamanti: non durano per sempre. Alla protesta dei “dem” si è unita Giorgia Meloni con Fratelli d’Italia, probabilmente per piantare una bandiera sulla polemica. L’opposizione fa il suo mestiere ma in questo caso la leader dei conservatori non dovrebbe dolersi troppo della decisione di Draghi. Gli si chiedeva, da destra, un segno di discontinuità rispetto ai passati governi. Sembra che l’abbia dato: forse adesso possiamo cominciare a comprendere cosa concretamente voglia dire fine di un’egemonia culturale. E tanto per essere chiari: se è questa la discontinuità realizzata da Draghi con i fatti e non a chiacchiere, a noi piace moltissimo.
Aggiornato il 10 marzo 2021 alle ore 09:24