Al di là dei problemi in agenda che il nuovo governo dovrà fronteggiare e sperabilmente risolvere, all’orizzonte c’è uno snodo fondamentale proprio soltanto dei partiti e che l’arrivo di Mario Draghi ha evidenziato impietosamente: quello del loro rinnovamento.

Non è soltanto il calendario a dettarne l’urgenza in vista del voto politico nazionale, probabile nella primavera del 2022 e certo in quella dell’anno successivo. L’urgenza è piuttosto dettata dallo scollamento strisciante ma sempre più profondo tra opinione pubblica e classe dirigente. È sullo sgretolamento della fiducia, infatti, che corre il deterioramento dei rapporti tra rappresentati e rappresentanti. E siccome “la fiducia è una cosa seria, che si dà alle cose serie”, come diceva un vecchio spot pubblicitario, scherzare con essa sarebbe per i partiti come farlo col fuoco. Per tutti, senza distinzione di simbolo, compresi quelli che del populismo hanno fatto bandiera.

Sebbene questa esigenza sia palpabile, sapranno innovarsi? Al di là delle parole, sapranno offrire nuovi palinsesti programmatici in grado di dare concretezza a riforme strutturali dell’economia e del welfare, del fisco e della spesa, delle infrastrutture e dell’energia, della giustizia, della scuola e della pubblica amministrazione? Oppure rimarranno ancorati al vecchio e piccolo mondo antico, ognuno ai propri slogan triti e ritriti, alle loro ricette fumose e per di più spuntate? E ancora: sapranno aprirsi a nuovi orizzonti costituzionali o si limiteranno a riproporre i soliti litigi su legge elettorale, bicameralismo, autonomie locali, senza rendersi portatori di svolte reali? Sapranno attuare un rinnovamento di classe dirigente ispirato alla competenza e all’esperienza, o continueranno ad evitare accuratamente innesti di nuove figure e ad alzare paratie a difesa dell’acqua che, pur melmosa, sperano consenta loro di navigare per qualche altro miglio?

Attraversare il fuoco purificatore della critica e del ricambio richiede umiltà e forte determinazione, e dubitare che le attuali forze in campo ce le abbiano è francamente lecito. Non è un pregiudizio, questo, ma è la storia degli ultimi trent’anni che ne dà riscontro, come dà riscontro degli effetti rovinosi prodotti dall’inerzia: dall’inarrestabile degrado della cultura politica, alla moltiplicazione dei movimenti populisti, ringhiosi e analfabeti; dallo strapotere acquisito dalla magistratura inquirente e amministrativa, alla nascita malcelata di uno Stato giustizialista, di polizia fiscale e burocratica; dal “commissariamento” europeo quasi costante sulle scelte di bilancio, alla ciclica perdita di credibilità internazionale.

Non conviene illuderci, dunque, sebbene rimanga viva la speranza che la storia, che pure non si ripete mai per identità, questa volta non si ripeta neppure per analogia. È la stessa speranza che espresse Francesco Cossiga nell’accorato e drammatico messaggio alle Camere del 26 giugno 1991. Il capo dello Stato, quasi presagisse l’imminente “terremoto” che avrebbe sgretolato la Prima Repubblica, con parole crude ma con tono quasi supplicante, chiese alle forze politiche uno sforzo collettivo di rinnovamento così da apportare cambiamenti profondi all’assetto dello Stato e ricucire il rapporto fiduciario coi cittadini. Nulla accadde. E il “terremoto” arrivò, rovinoso e impietoso.

(*) agiovannini.it

Aggiornato il 17 febbraio 2021 alle ore 09:52