Mario Draghi e la variante di Lüneburg

Piaccia o no, di una cosa si può essere certi: il livello medio qualitativo della squadra di Governo messa in campo da Mario Draghi è alto. Non si misura soltanto la robustezza curriculare dei ministri (non di tutti), ma il grado di compromesso raggiunto tra istanza di autonomia decisionale della compagine ministeriale e bisogni ancestrali della partitocrazia: superiore nel caso del Conte bis, minore in quello dell’ex Governatore della Banca centrale europea. Non è questione numerica del mix tra “tecnici” e “politici”, nonostante il rapporto di 8 (i primi) a 15 (i secondi) possa indurre a una valutazione errata su chi manovri le leve del potere. Lo spettacolo indecente da ultimi “giorni di Pompei” offerto dal Conte bis ha cancellato la possibilità che il sistema dei partiti potesse comandare il gioco, almeno in questa legislatura.

La soluzione Draghi, nella sostanza, è un commissariamento della politica. Riguardo allo schema tattico del “Draghi 1” ha ragione Giuseppe Pennisi che, dalle colonne di Formiche. net, ne offre una lettura condivisibile citando Bertolt Brecht: un Governo e il suo doppio. Cioè, un Esecutivo a due anime, e prevedibilmente a due velocità, a cui corrispondono missioni differenziate. Ai “tecnici” la polpa delle grandi di riforme e la redazione dello scivoloso Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) a cui è demandato il compito di portare in Italia il malloppo da 209 miliardi di euro del Next Generation Eu; ai “politici” le rogne delle tante crisi, congiunturali o endemiche, che costellano la nebulosa socio-economica italiana. C’è della logica in tale scelta. Non sono forse i partiti ad attribuirsi una speciale attitudine a interpretare la realtà? E allora che se la sbrighino loro a togliere le castagne dal fuoco della quotidianità, che a pensare in grande, sub specie aeternitatis, ci sono quelli che, ciascuno nel proprio campo d’interesse, hanno dimostrato di essere grandi, a prescindere.

Finiti i giorni dell’Osanna, ai politici tocca gestire le conseguenze di un brusco risveglio dopo un’ingiustificata sbornia autoconsolatoria. Alcuni, a sinistra, si erano trastullati con la fantasia che Draghi, chiamato d’urgenza dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, al capezzale del malato Italia, potesse essere lo strumento per il prolungamento della guerra, intestina al defunto Conte bis, con altri mezzi. Che stratosferica cantonata! Il nuovo premier ha mostrato subito di che pasta sia fatto il suo pragmatismo, che non è la stessa di cui sono fatti i sogni. In due passaggi Mario Draghi è andato giù dritto, come un fuso: nel non cadere nella trappola grillina del super ministero della Transizione ecologica e nel non dare ascolto alla disperazione di Nicola Zingaretti e compagni che volevano la Lega fuori del perimetro del nuovo governo. È affiorata in superficie l’anima del banchiere per il quale i mezzi disponibili (suona più familiare whatever it takes?) siano subordinati all’obiettivo che s’intenda colpire, e non il contrario.

L’ex capo della Bce ha fiutato la trappola che Beppe Grillo e soci pentastellati gli avevano preparato: un super ministero dell’Ambiente che, se avesse messo cappello su quello dello Sviluppo economico, avrebbe consentito la prosecuzione della politica d’interdizione al rilancio dell’apparato produttivo industriale, che è stata l’impronta grillina impressa sulla versione double-face dei Governi Conte. Se vi fosse ancora qualche dubbio circa la bastonata rifilata da Mario Draghi ai Cinque Stelle fanno testo le parole infuocate della senatrice grillina Barbara Lezzi con le quali scaraventa una pietra tombale sulle prospettive (velleitarie) del Movimento pentastellato. In una lettera indirizzata al reggente Vito Crimi e al Garante Beppe Grillo per chiedere una nuova votazione sulla piattaforma Rousseau, la “pasionaria del Salento” scrive: “La previsione del quesito posta nella consultazione dell’11 febbraio 2021 non ha trovato riscontro nella formazione del nuovo governo. Non c’è il super-ministero che avrebbe dovuto prevedere la fusione tra il ministero dello Sviluppo economico e il ministero dell’Ambiente oggetto del quesito”. E “per fortuna!” aggiungiamo noi, facendoci interpreti del sentimento di tanti piccoli e medi imprenditori italiani terrorizzati dall’affermarsi, per mano grillina, di un pericoloso radicalismo ambientalista, mortale nemico dei ceti produttivi tradizionali. A gestire l’impostazione della fase della transizione ecologica, che sta a cuore ai vertici di Bruxelles e ai partner più influenti all’interno dell’Unione europea, è stato chiamato Roberto Cingolani. Uno scienziato che viene dagli studi di Fisica ma che è transitato, grazie alle sue alte competenze, per i Consigli di amministrazione di grandi complessi industriali, tra cui il Gruppo Leonardo, l’italianissima azienda partecipata dallo Stato che si occupa di aerospazio, difesa e sicurezza. È lecito attendersi da lui un approccio equilibrato al tema dello sviluppo sostenibile che tuttavia muova dall’esigenza di potenziare la capacità produttiva del nostro apparato industriale migliorandolo, sotto il profilo della compatibilità ambientale, grazie alle nuove tecnologie e ai risultati della ricerca scientifica, non invece fomentando atteggiamenti “luddisti” per dare fiato e speranza alla follia della decrescita felice.

Il secondo colpo piazzato da Draghi, che ha mandato al tappeto la sinistra, ha riguardato l’ingresso in maggioranza della Lega. Perché lo ha voluto? Sarà mica un leghista “coperto”, come si direbbe in linguaggio massonico, “all’orecchio” del segretario federale Matteo Salvini, dopo essere stato classificato da Beppe Grillo un grillino in nuce? Neanche per idea. Il premier ha guardato in faccia la realtà e ha capito che non sarebbe andato da nessuna parte se non avesse avuto dalla sua la forza politica che, dati alla mano, rappresenta il blocco sociale del Nord produttivo, oltre ad avere il controllo di 14 governi regionali su 20, di cui 6 su 8 nell’area settentrionale del Paese. Non è un caso che Draghi abbia affidato a due leghisti, Giancarlo Giorgetti e Massimo Garavaglia, rispettivamente i ministeri del Turismo (con prossimo portafoglio) e dello Sviluppo economico, a presidio di settori che sono l’epicentro della crisi del sistema economico nazionale. Garavaglia avrà risorse finanziarie con le quali dare risposte immediate a un comparto che nel 2018 ha cubato il 13,2 per cento del Pil nazionale, pari a un valore economico di 232,2 miliardi di euro, con il 14,9 per cento dell’occupazione totale, per 3,5 milioni di occupati (fonte Ufficio studi Enit-Osservatorio nazionale del turismo). Questo universo produttivo è stato raso al suolo dalla pandemia e bisognerà rimetterlo in piedi al più presto e a qualsiasi prezzo. Un’opera di tale portata Draghi l’avrebbe potuta affidare al moralismo pauperista di un grillino o all’ottuso burocratismo di un mezze-maniche “dem”? Peggio ancora per lo Sviluppo economico. Per onestà intellettuale, quel ministero dovrebbe chiamarsi: delle crisi industriali, viste le centinaia di vertenze aperte e lasciate marcire dai più recenti predecessori del neo-nominato Giorgetti, che neanche a dirlo sono stati due grillini. Nell’ordine, Luigi Di Maio e Stefano Patuanelli. Se il buongiorno si vede dal mattino, da oggi il vice-segretario della Lega dovrà dimostrare di essere non solo un burbero “Richelieu”, ma anche un efficace risolutore. Gli toccherà cominciare dai nodi spinosi dell’ex-Ilva di Taranto e dell’Alitalia che questa mattina gli saranno stati serviti con il cappuccino e il maritozzo, non appena messo piede negli uffici del ministero al civico capitolino 33 di via Veneto.

Benché non sia laica costumanza santificare chicchessia, la buona creanza impone un sentito ringraziamento al signor Draghi per alcune decisioni molto apprezzate. In primo luogo, aver liquidato quel bizzarro caso di “mezza cartuccia” affetta da sindrome giustizialista che risponde al nome di Alfonso Bonafede ed averlo sostituito nel delicatissimo ruolo di ministro della Giustizia con una personalità competentissima e degnissima, qual è la professoressa Marta Cartabia. In secondo luogo, per aver riportato lo stile sobrio nella prassi comunicativa del Consiglio dei ministri. Dopo anni di volgarità dell’agire politico e di faziosità demagogica azionata con metodologia da “Grande Fratello” (Mediaset) attraverso i social e la comunicazione-spazzatura, che tornino il ragionamento e la riflessione pacata anche tra i protagonisti della politica? Troppa grazia. Fatta la squadra, tocca al programma che verrà illustrato dal premier al Parlamento per la fiducia, a partire da dopodomani al Senato. Al momento, non si può dire che la navigazione d’altura sia cominciata. Nondimeno, per tenerci in linea con i successi che “Luna rossa” sta raccogliendo nella finale sfidanti dell’America’s Cup dall’altra parte del mondo, auguriamo ugualmente “Buon vento”!

Aggiornato il 16 febbraio 2021 alle ore 09:56