
Ieri ho cercato di spiegare per quali ragioni il nascituro governo guidato da Mario Draghi sarà un governo politico e non strettamente tecnico. Oggi cerco di spiegare perché esso non sarà tecnico, ma politico. Le ragioni, molto semplici, sono sotto gli occhi di tutti e perciò mi limito a ribadirle, mettendo nel conto che molti abbiano già capito ciò che c’è da capire, che è quanto segue. Fra gli impegni più importanti e delicati, il governo in via di formazione dovrà confezionare i progetti da presentare in Europa entro il 30 aprile, allo scopo di spiegare come si pensi di spendere i 209 miliardi assegnati all’Italia.
La prima meta da raggiungere è decidere, secondo una visione capace di proiettarsi almeno nei prossimi dieci anni e non derivante da ciò che potrebbe accadere domani o dopodomani. La seconda meta da raggiungere è prospettare la spesa complessiva come spesa dotata di un “senso”, invece che come spesa insensata e buona soltanto per accontentare questo o l’altro gruppo di pressione, soddisfatto di poter usare una manciata di milioni. La terza meta è ovviamente la selezione delle specifiche finalità da perseguire e l’ordinazione di queste secondo una scala di priorità decrescenti, alla quale corrisponderà naturalmente l’importo complessivo della spesa assegnata al singolo comparto economico. Altro impegno sarà riorganizzare il piano vaccinale che oggi appare del tutto scoordinato e quasi allo sbando: nessuno sa nulla di troppe cose, neppure chi invece avrebbe l’onere di sapere. Ulteriore compito sarà quello, urgente e determinante per le sorti italiane, di approntare riforme strutturali serie e indifferibili: fisco, scuola, Pubblica amministrazione, giustizia. Taccio, per brevità, di altri compiti, pur necessari.
Orbene, per operare in queste direzioni un tecnico non basta: non saprebbe neppure da dove cominciare, come fare a muoversi. Intendo dire semplicemente che scegliere se sorreggere la sanità con dieci miliardi di euro o con trenta, riducendo per esempio la somma assegnata precedentemente alla scuola o alla digitalizzazione, o viceversa, non è mai una scelta tecnica, ma squisitamente politica. E ciò perché, per operare questa scelta, capace di segnare il futuro per i prossimi dieci anni, bisogna avere in testa ben chiaro il disegno di cosa si voglia fare dell’Italia nel futuro nostro e dei nostri figli. E modellare questo disegno è il più nobile dei compiti tradizionali del politico, la cui opera, con una definizione molto espressiva dovuta a Pio XI – poi ripresa da Paolo VI e dall’attuale Pontefice – può davvero esser considerata “la più alta forma di carità”. Confesso che ce lo vedo poco un tecnico ad ingegnarsi per operare secondo carità, cioè come il miglior politico (almeno in linea di principio). La tecnica attiene, infatti, alle modalità operative da utilizzare per raggiungere l’obiettivo prescelto, agli strumenti più utili e adatti allo scopo. Ma lo scopo è il politico che lo individua e seleziona fra mille altri egualmente possibili e lo fa “non tecnicamente”, ma in base alla propria “visione del mondo”.
Ecco perché il governo Draghi non potrà mai appiattirsi su una dimensione strettamente tecnica: perché non si dà nell’esperienza umana un modo “tecnico” – cioè neutro – di selezionare gli scopi sociali ed umani da perseguire. La scelta degli obiettivi da perseguire e perfino degli strumenti tecnici da adottare per conseguirli è infatti sempre meta-tecnica, che vale oltre la tecnica, cioè compiutamente politica. Prova ne sia che pare che nel governo nascituro, non tecnico, ma politico, siederanno accanto a Draghi anche esponenti politici dei partiti della futura maggioranza, in veste di ministri. Qualunque cosa Draghi sia stato nel corso della sua esperienza, qualunque ruolo abbia ricoperto presso Istituti finanziari, Banche e perfino presso Goldman Sachs, permane una certezza: in questo governo, Draghi non potrà mai rivestire il ruolo di tecnocrate. Neppure volendolo.
Aggiornato il 05 febbraio 2021 alle ore 09:48