
Gli apoti sono coloro che non se la bevono. Il termine, che definisce una delle molte facce del disincanto, fu coniato da Giuseppe Prezzolini. Il padre nobile del conservatorismo novecentesco in Italia lo citò, a proposito della costituzione di una “Congregazione degli apoti”, in una lettera a Piero Gobetti pubblicata il 28 settembre 1922 sulla Rivista La Rivoluzione liberale, giusto un mese prima della Marcia su Roma e dell’ascesa al potere di Benito Mussolini. Prezzolini l’aveva pensata per dare alle menti migliori uno spazio simbolico comune entro il quale organizzare la risposta degli spiriti oltraggiati dalla miseria morale e intellettuale di cui era intrisa la vita pubblica italiana all’inizio del secolo scorso. Un antidoto alla contrapposizione tra l’agire politico e l’esercizio dell’intelligenza.
Scrive Prezzolini: “La vita della politica attiva, alla quale il momento tragico ci chiamerebbe, ci costringerebbe per forza all’abbandono di tutte quelle cautele dello spirito, di quelle abitudini di pulizia e di elevazione, di quelle regole di onestà intellettuale, che la generale grossolanità, violenza e mala fede rendono più che mai necessario mantenere”. Lo spettacolo indecoroso della recente crisi del Conte bis ha messo a nudo la pochezza ideale dei politici che ne sono stati protagonisti ai confini dell’osceno. La dimostrazione offerta da una mediocre classe dirigente demo-penta-renziana, di non riuscire a governare le dinamiche del confronto interno alla maggioranza parlamentare, ha certificato la morte cerebrale della buona politica, costretta per manifesta incapacità auto-regolativa a cedere il passo ai cosiddetti alti profili tecnici allo scopo di mettere in salvo il Paese. Di fronte all’incartamento delle forze partitiche, come non sentire il bisogno di dare una robusta spolverata alle parole di saggezza di Prezzolini e di farle nostre? Si tratta di una buona causa, che sta nell’infondere in noi stessi la giusta dose di coraggio per reggere gli eventi di queste giornate di tenebra, senza cedere all’impulso di brandire l’illusorio rimedio salvifico del populismo.
Non siamo nati ieri e non siamo educande istruite dalle Orsoline, sappiamo perfettamente cosa comporti la lotta politica e quanto essa possa essere a tratti rozza e meschina. Nessuno ha mai pensato che, al pari della rivoluzione, la democrazia liberale a base parlamentare potesse essere un pranzo di gala. Uno scafato socialista pugliese, in auge negli anni d’oro del craxismo, sentenziò che la politica fosse “sangue e merda”. Non abbiamo mai dubitato della fondatezza di tale asserzione. Eppure, ciò che abbiamo visto andare in scena nella giornata convulsa di ieri non recava tracce ematiche, ma di tutto il resto sì. La cronaca del disastro annunciato è presto detta. Matteo Renzi ha aperto la crisi di governo con l’obiettivo, non dichiarato ma visibile appena sotto la superficie delle sue dichiarazioni, di fare fuori Giuseppe Conte e di estromettere i grillini dalla gestione del potere. In sé un nobilissimo proposito, se non fosse che a consolidarsi al Governo della nazione Conte e compagni ce li ha messi Renzi con una delle sue capriole tattiche, nell’estate del Papeete e dello scivolone di Matteo Salvini sul “Conte I”. Lo ha fatto quando era ancora un’anima del Partito Democratico e ha continuato a farlo dopo essersene distaccato dando vita alla sua creatura “Italia Viva”. I giudizi senza appello emessi in questi giorni sulla negatività del Conte bis li avrebbe potuti tirar fuori prima quando, ad esempio, ha salvato dal voto di sfiducia il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Che questi fosse un pericoloso giustizialista era noto ma che il cinico Renzi lo ignorasse non è credibile.
Sia chiaro, è una buona notizia che abbia fatto saltare il tavolo al quale una sinistra parassita si era attovagliata con i nuovi amici pentastellati, ma credere che l’abbia fatto per mantenere il punto su improbabili principi ideali non la beviamo. A fare il conto della serva cosa ha guadagnato l’astuto senatore di Rignano sull’Arno dall’operazione di killeraggio del Governo giallorosso? Ha tirato la corda sul Conte ter con indubbia capacità tattica. Se avesse ceduto al culmine della tensione avrebbe potuto capitalizzare lo sforzo facendo incetta di posti da ministro e da sottosegretario con cui riempire il carniere di Italia Viva. Invece ha preferito che la corda si spezzasse e che la soluzione della crisi rotolasse vorticosamente verso il “Governo del presidente”, presso il quale il grado d’influenza di Italia Viva sarà enormemente inferiore a quello che avrebbe avuto tenendo in pugno un debolissimo “Conte ter”. Non l’ha fatto e a noi sta bene. Un giorno riusciremo perfino a essergli grati per questo sorprendente harakiri. Ma Renzi non ci venga a raccontare che è sull’altare del bene supremo della nazione che avrebbe immolato le sue brame di potere, perché non la beviamo.
Il sospetto è che il cinico “Rottamatore” abbia indossato la palandrana del bounty killer e fatto onore alla fama di “demolition man” guadagnando qualche credito politico oltreoceano. Un grande statista del passato con fare sornione motteggiava un sapido aforisma: a pensar male si fa peccato ma quasi sempre si azzecca. Anche a noi capita di pensar male quando si tratta di Matteo Renzi. E qualcosa ci dice che la decisione di passare all’attacco di Giuseppe Conte e la vittoria alle presidenziali statunitensi del democratico Joe Biden siano qualcosa di più di una semplice coincidenza. Nel 2019, con la crisi del Governo Cinque Stelle e Lega “l’avvocato del popolo” aveva affidato la sua sopravvivenza al potere all’endorsement ricevuto da Donald Trump. Con una tale ipoteca sulle spalle “Giuseppi” come avrebbe potuto farsi accettare dal nuovo inquilino della Casa Bianca? E poi, lo sbracamento grillino nei confronti di Pechino con il cavallo di Troia dell’adesione al Belt and Road Initiative, il progetto espansionista della Repubblica popolare cinese portato dal Governo italiano nel cuore dell’Occidente, agli occhi dei tetragoni alleati americani gridava vendetta. Con Biden alla presidenza degli Stati Uniti, Conte non sarebbe sopravvissuto a Palazzo Chigi. Matteo Renzi si è reso disponibile a fare il lavoro sporco e probabilmente verrà ricompensato dagli ipotetici committenti. Se questa è la verità inenarrabile a noi sta anche bene che sia finita com’è finita per Giuseppe Conte e soci, a patto però che né Renzi né i suoi di Italia Viva provino a spacciarla per un’eroica impresa di un pugno di audaci patrioti pronti a immolarsi per il bene degli italiani. Perché questa non la beviamo.
Archiviato Giuseppe Conte, il capo dello Stato ha convocato per questa mattina, al Quirinale, Mario Draghi. All’ex governatore della Banca centrale europea verrà consegnato, insieme al certificato di morte della buona politica, il mandato a salvare la patria. A un personaggio di tale peso internazionale sarà un problema per tutte le forze politiche voltargli le spalle. Prepariamoci ad assistere alla liquefazione della mitica unità del centrodestra. I berlusconiani si precipiteranno festosi a omaggiare il nuovo premier; Matteo Salvini resterà impantanato a metà del guado con una parte del partito che lo tirerà per la giacchetta in direzione Draghi e con l’altra che sarà annichilita dalla paura di lasciare campo libero all’espansione di Fratelli d’Italia nella vasta prateria dello scontento italiano. Alla sinistra non andrà meglio: il Partito Democratico non è strutturato per opporsi alle scelte di un Capo dello Stato che finora lo ha tutelato e tenuto al potere facendo strame di sensibilità democratica e di buon senso. Ma il dramma più grande sarà per i grillini, che dopo aver rinnegato storia e ideali pur di tenere Giuseppe Conte a Palazzo Chigi e se stessi sugli scranni parlamentari, si ritrovano a non avere più peso specifico nel nuovo quadro politico. Seguiremo l’evolversi della crisi e ve ne daremo conto. Ma non faremo eco alle ricostruzioni menzognere e interessate della politica politicante, perché a noi non la danno a bere.
Aggiornato il 03 febbraio 2021 alle ore 09:44