
Anni orsono sentendo un paio di lezioni di linguistica e di letteratura italiana di Luca Serianni all’Università incentrate sulla fiaba di Pinocchio mi venne in mente che quella favola terribile se non feroce – lo diceva lo stesso Serianni – in realtà ha sempre ben rappresentato la mentalità italiana in materia di giustizia e dintorni.
La giustizia come nemesi – se non come vendetta – il carcere come punizione deterrente senza alcun intento rieducativo, il paradosso dell’errore giudiziario come pena accessoria per chi deviava dalla retta via.
A questo si può aggiungere una ricca dose di paternalismo, di sarcasmo sugli emarginati – simboleggiati dai burattini nella fattispecie – e un cinico fatalismo a proposito delle disgrazie della vita. Aggiungendo una bella istigazione al senso di colpa per avere avuto magari solo la tentazione di fare qualcosa di trasgressivo o, peggio ancora, per l’aver voluto divertirsi. Uno potrebbe dire che la fiaba nacque da esigenze culturali elementari di contrastare l’enorme tasso di abbandono scolastico dell’epoca. Ma questa è una foglia di fico.
Beh, a pensarci bene l’Italia deve gran parte degli attuali e ormai insostenibili problemi della sua giustizia penale – ma anche civile e amministrativa – a questa mentalità da fiaba di Collodi con cui sono stati formati culturalmente gran parte dei giudici e dei pubblici ministeri del Bel paese per lo meno dall’epoca risorgimentale agli anni Settanta dello scorso secolo.
“Se uno va in galera qualcosa lo avrà fatto”. È il motto di questa educazione, chiamiamola così. Chissenefrega se la Costituzione dice che si deve tendere a rieducare il reo. D’altronde la Costituzione prevedrebbe anche l’istituto dell’amnistia e dell’indulto e tutti sanno come è stato neutralizzato l’articolo relativo.
Enzo Tortora fu uno dei primi a farne le spese in tempi in cui lo strapotere giudiziario era di là da venire di questa mentalità che oggi chiamiamo “manettara”. Va detto che se il caso Tortora fosse avvenuto negli anni Novanta o dopo il Duemila – al netto dei Radicali e di Marco Pannella – si sarebbe trovata una maniera di condannarlo. O, se preferite, di fotterlo.
Ma allargando il campo dalla giustizia e dalle carceri alla sanità – e anche alla scuola – l’esempio della gestione punitiva e colpevolizzante verso il cittadino della attuale pandemia da Covid-19 sembra avere qualcosa a che fare con la mentalità di Collodi. La scuola come punizione per i ragazzi esuberanti che si vogliono divertire nella vita. La malattia come castigo divino. L’invito alla delazione contro chi “non rispetta le regole” come rimedio ai mali sociali. Tutto è perfettamente incarnato in questa notissima “fiaba per bambini”.
E quel che non troviamo di diseducativo – o di falsamente educativo – nella lettura semantica di Pinocchio, è tutto contenuto in un altro libro per ragazzi ritenuto per decenni molto formativo.È il libro “Cuore” di Edmondo De Amicis. Un baluardo del pensiero dell’Italia a cavallo della unificazione e della post-unificazione. In “Cuore” molto semplicemente – stavolta all’interno del mondo della scuola – vengono segnati in maniera quasi apodittica i confini tra il bene e il male. Identificato in questo terribile Franti che sembrerebbe un bullo dell’epoca laddove oggi qualcuno lo metterebbe più nella categoria umana della psicolabilità violenta. I diversi, i “pazzi”, quelli strani o strambi nell’Italia di Collodi e di De Amicis erano tendenzialmente rinchiusi nei manicomi oltre che nelle patrie galere e in ogni caso sempre puniti.
Ma anche oggi dove il “politically correct” è diventata una mentalità ossessiva e altrettanto inefficace per l’educazione di quanto non lo fosse il punizionismo e il senso di colpa, sotto sotto la gente coltiva gli stessi biechi sentimenti di fine Ottocento.
L’urlo “in galera” rivolto a politici o a sfortunati protagonisti della cronaca nera e giudiziaria, condito con la spietatezza ruffiana con cui certi uomini politici e certi magistrati precisano che “in galera si deve marcire”, anticipa la condanna processuale con quella moralistica e mediatica. Alle persone che deviano va distrutta la vita. Non devono più avere o coltivare ambizioni. Né tentare di rifarsi una vita. Tanto meno con successo. Questa sfumatura ad esempio si è colta nel trattamento processuale riservato a Salvatore Buzzi nel noto processo “Mafia Capitale”: sgonfiatosi come un palloncino dopo il primo grado. Non importa se la società potrebbe guadagnarci di più a recuperarle certe persone. “Devono morire”, come nei cori allo stadio.
Ci sono pure giornalisti che vanno per la maggiore da anni – e che si vantano di essere i discendenti spirituali di Indro Montanelli – che si vantano di “non avere mai stretto la mano a un pregiudicato”. Come se uno che in passato abbia sbagliato e magari anche pagato e scontato una pena non potesse, anzi non dovesse, mai più per editto divino essere o diventare una persona perbene e neanche utile al lavoro. E men che meno semplicemente presa sul serio nel proprio eventuale ravvedimento.
La “damnatio memoriae” in vita è diventata una scorciatoia per fare fuori l’avversario politico o un concorrente nel mondo del lavoro. Finché un sano pragmatismo liberale non si sostituirà a questa mentalità, a ben vedere molto meschina e pericolosa, in Italia votare per i partiti di sinistra o per quelli di destra, o per quelli dell’antipolitica, sarà sempre un falso problema. Come scegliere la modalità di esecuzione di una condanna a morte. In questo caso della democrazia liberale.
Aggiornato il 07 gennaio 2021 alle ore 12:48