La crisi di governo nelle mani di un libico: Khalifa Haftar

La buccia di banana che può mandare a gambe all’aria Giuseppe Conte e il suo Governo ha la forma di 18 pescatori, detenuti illegalmente nella Libia del generale Khalifa Haftar. Sono 106 giorni, dallo scorso primo settembre, che gli incolpevoli pescatori della marineria di Mazara del Vallo sono tenuti in ostaggio in una prigione nei pressi di Bengasi. E Roma non ha fatto nulla per riportarli a casa. La vicenda è nota. I nostri otto connazionali, insieme a 10 tra tunisini e senegalesi, imbarcati su due pescherecci: l’Antartide e il Medinea, la notte tra il 1 e il 2 settembre, sono stati catturati a meno di 40 miglia dalla costa della Cirenaica da militari fedeli al generale Khalifa Haftar. Il motivo è che avrebbero sconfinato in acque territoriali libiche. In realtà, Haftar ha ordinato il sequestro dei nostri connazionali per costringere il Governo di Roma a uno “scambio di prigionieri”. Nelle patrie galere italiane, infatti, sono detenuti 4 pendagli da forca libici condannati per gravissimi reati che, tuttavia, in patria sono considerati dei bravi ragazzi. Onesti lavoratori del mare e pericolosi trafficanti di esseri umani messi sullo stesso piano: un immondo abominio. Ma si sospetta che vi sia anche un altro motivo alla base del colpo di mano del capobanda della Cirenaica. In concomitanza del sequestro vi era stata la visita, nel Paese nordafricano sconvolto dalla guerra civile, del nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. L’inesperto politico italiano aveva pensato bene d’incontrare, oltre al presidente Fayez al-Sarraj, per la parte tripolina, il presidente del Parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, per la Cirenaica, snobbando platealmente il generale Khalifa Haftar, che si rappresenta come il leader del fronte anti-Tripoli. Uno sgarbo intollerabile per un tagliagole che vuole accreditarsi sulla scena internazionale come interlocutore politico insostituibile nel processo di pace in Libia.

Chiarito il contesto, ci saremmo aspettati che nel volgere di qualche giorno Roma avesse risolto la crisi, non fosse altro perché l’Italia è l’Italia. Con somma esecrazione abbiamo dovuto prendere atto che da quando è in carica il Governo demo-penta-renziano e, più in generale, da quando è la sinistra a dettare legge, l’Italia non è più l’Italia. È stata declassata a entità marginale nel quadrante geopolitico del Mediterraneo. Conte ha deciso per l’immobilismo, facendo affidamento sull’aiuto dell’Unione europea che sul fronte strategico non esiste. Il nostro Governo avrebbe dovuto mostrare i muscoli con il bandito di Bengasi. Ma non lo ha fatto, preferendo farsi umiliare dall’ultimo arrivato, così restituendo un’immagine di debolezza che potrebbe nuocere gravemente alla sicurezza degli italiani nel mondo. Gianandrea Gaiani, nell’editoriale pubblicato su Analisi Difesa, si domanda perché Roma non abbia adottato quelle formule classiche che si usano quando si vuole mandare un messaggio di forza alla controparte. Perché non sono state minacciate gravi conseguenze al gesto criminale? Perché non si è esplicitamente dichiarato la non esclusione di ogni opzione per liberare gli ostaggi?

Seppure volessimo comprendere la necessità di non toccare delicati equilibri che si riverberano sui nostri interessi commerciali, una domanda sorge spontanea: che li abbiamo comprati a fare gli F-35 Lightning II Stealth, il meglio dei cacciabombardieri multifunzioni che la tecnologia abbia concepito fino a questo momento? E non si dica che le dimostrazioni di forza siano incompatibili con la via diplomatica. Si prendano due casi balzati di recente all’onore delle cronache internazionali. Il primo. Nel pieno dei negoziati sulla Brexit con i vertici della Ue, il premier britannico Boris Johnson ha comunicato l’intenzione di disporre lo spiegamento della Royal Navy a protezione delle aree di pesca della Gran Bretagna dall’intrusione di flotte pescherecce straniere, in particolare francesi. Il secondo. Il 5 dicembre scorso motovedette della Marina che obbedisce a Khalifa Haftar hanno sequestrato nelle acque di Bengasi il cargo turco Mabrouka, battente bandiera giamaicana. La nave è stata dirottata nel porto di Raas al-Hilal in Cirenaica, dove le autorità locali hanno interrogato l’equipaggio. Nel frattempo, Ankara, che è formalmente in conflitto con la Cirenaica in quanto alleata del Governo di Tripoli, ne ha richiesto l’immediato rilascio minacciando, in caso contrario, “gravi conseguenze”. Fonti governative turche hanno fatto sapere che “se gli interessi turchi in Libia vengono presi di mira, ci saranno gravi conseguenze e gli autori saranno considerati obiettivi legittimi”. Risultato: a cinque giorni dal fermo, i libici hanno rilasciato la nave e l’equipaggio limitandosi a elevare contravvenzione al comandante del mercantile “per aver navigato nelle acque territoriali libiche senza autorizzazione nonché per essere entrato in una zona di operazioni militari”.

Siamo finiti nei guai, ma potevamo evitarlo? Su questo aspetto si è aperta una polemica dopo la pubblicazione sul settimanale Panorama, lo scorso 9 novembre, di un’inchiesta di Fausto Biloslavo. Oggetto dell’indagine giornalistica è stato il ruolo nella vicenda del cacciatorpediniere lanciamissili Durand de La Penne della nostra Marina che nella notte del sequestro dei pescherecci incrociava in un tratto di mare non distante dal punto dell’intercettazione, comunque raggiungibile dall’elicottero AB-212 Asw, in dotazione all’unità da guerra italiana. Perché il Durand de La Penne non è intervenuto nonostante dai comandi della Marina fosse stata data assicurazione agli armatori delle navi sequestrate e al capitano Giuseppe Giacalone, comandante del peschereccio Aliseo sfuggito alla cattura e testimone oculare del blitz dei libici, che in mezz’ora sarebbe intervenuto l’elicottero? Fonti del ministero della Difesa hanno comunicato che “il ministro è stato informato a evento concluso dal capo di Stato maggiore della Difesa, alle ore 8,00 del 2 settembre”. Allora chi ha deciso di abbandonare i nostri pescatori? Se sono stati i militari a fare tutto da soli, il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, quali provvedimenti ha preso nei confronti dei vertici delle forze armate che lo avrebbero tagliato fuori dal processo decisionale? E se non sono stati loro a bloccare l’elicottero, chi è stato da Roma a ordinare il dietrofront? Palazzo Chigi? La Farnesina? Il contrammiraglio Angelo Virdis, Capo ufficio informazione e comunicazione dello Stato maggiore della Marina Militare, replicando all’inchiesta di Biloslavo, ha precisato che “l’impossibilità a intervenire è stata determinata dalle distanze in gioco e, prioritariamente, dalla minaccia delle armi nei confronti dei nostri concittadini sotto il controllo di uomini armati delle milizie libiche”.

Una giustificazione che lascia perplessi. Resta il fatto che l’incapacità del Governo italiano di venirne a capo non resterà a lungo un elemento secondario di disturbo sul suo cammino. Se dovesse accadere qualcosa di negativo a uno dei pescatori trattenuti in Libia contro la loro volontà o se la detenzione dovesse protrarsi per un tempo insostenibile, la protesta che oggi appartiene solo ai famigliari dei pescatori e ai loro concittadini mazaresi potrebbe estendersi a tutto il Paese confluendo nell’onda di rabbia che sta montando tra la popolazione a causa della crisi economica legata alla pandemia. A quel punto non vi sarebbero Quirinale e pastrocchi parlamentari in grado di salvare il galleggiamento al potere di una classe dirigente manifestamente incapace. D’altro canto, basta una scintilla per fare divampare un incendio. A Sarajevo, nel 1914, bastò la pistolettata del serbo-bosniaco Gavrilo Princip contro l’arciduca austro-ungarico Francesco Ferdinando a far scoppiare la Prima guerra mondiale. Per sfrattare Conte e compagni basterà molto meno.

Aggiornato il 15 dicembre 2020 alle ore 16:35