
Non tutto è Covid. Appena ieri abbiamo archiviato la ricorrenza del 4 novembre, anche quest’anno celebrato in tono dimesso e senza quel trasporto d’animo che sempre dovrebbe accompagnare il ricordo di una grande pagina di storia nazionale. Le abbiamo viste le massime autorità dello Stato schierate in pompa magna ai piedi del monumento al Milite Ignoto. La compostezza formale della cerimonia di deposizione della corona d’alloro del presidente della Repubblica è parsa francamente scialba. E ambigua. Abbiamo avuto la sgradevole la sensazione che si stesse sbrigando una pratica burocratica invece che commemorare il drammatico, ma generoso, sacrificio degli italiani nello sforzo bellico della Prima guerra mondiale. Si obietterà: ci sono problemi contingenti assai gravi ai quali fare fronte piuttosto che dedicarsi a festeggiamenti per fatti accaduti un secolo orsono e che non interessano più a nessuno. Obiezione errata, in punta di fatto e di principio.
Ciò che si conseguì il 4 novembre 1918 non fu soltanto la vittoria militare. Quella data è il simbolo della conclusione di un processo di unificazione del Paese, con l’annessione di Trento e Trieste, iniziato, manu militari, mezzo secolo prima. Per alcuni storici la Prima guerra mondiale è stata una sorta di Quarta guerra d’indipendenza, funzionale al consolidarsi di un idem sentire comunitario, di un autentico spirito di coesione nazionale forgiato nel fuoco delle battaglie, plasmato dal fango delle trincee e vigilato dalle lapidi dei caduti. In quei tempi bui e insieme eroici dalla stessa parte a combattere non c’erano piemontesi, toscani, siciliani, pugliesi, ma italiani. E anche le lingue che all’inizio del conflitto erano diverse, alla fine avevano trovato sintesi nell’unico linguaggio che i popoli in armi sanno parlare per comprendersi e riconoscersi nel comune destino. La guerra restituiva alla storia un Paese sentimentalmente unito, di là dalle ragioni della geografia e della politica.
Ma il 4 novembre è anche l’apice di un orgoglio nazionale appena conosciuto. Perché allora non celebrarlo degnamente? La ricorrenza, non più annoverata tra le festività civili, è stata dedicata alle forze armate. Scelta encomiabile, ma non sufficiente. Serve che almeno un giorno all’anno gli italiani si fermino a pensare alle origini, alle tradizioni e alla cultura che hanno fatto loro da culla identitaria e nutrimento spirituale. A maggior ragione, in un momento storico caratterizzato dalle aggressioni violente del fanatismo religioso islamico che mira a distruggerne i valori fondanti di civiltà. Trascorrere un giorno a riflettere, nell’epoca della società liquida, sul “chi siamo”, non è tempo sottratto alla produttività delle imprese e della manodopera. Perché, se lo fosse, altrettanto dispersive sarebbero le ricorrenze del 25 aprile e del 2 giugno. Eppure, tali date, che per molti aspetti restano divisive nella coscienza profonda della popolazione, continuano a essere onorate. Un pensiero dominante ha imposto al Paese una memoria selettiva degli eventi passati. Il mainstream di quelli che stanno dal lato giusto della storia ha dettato l’agenda delle festività civili, di modo che alcuni eventi del passato fossero tramandati ai posteri come elementi costitutivi della società civile e dello Stato come oggi li conosciamo, mentre altri ideologicamente meno compatibili venissero consegnati all’oblio. Si rimembra la Resistenza e la scelta della forma repubblicana, ma si è marginalizzato il ricordo dell’evento bellico che ha sancito il consolidamento dell’unità nazionale. Forse che a qualcuno sia dispiaciuto ammettere che gli italiani sanno combattere e vincere sotto un’unica bandiera? Sanno buttare il cuore oltre i cavalli di Frisia per avere ragione di chiunque provi a rubargli il “sacro suolo” patrio? É forse la parola “patria” che suscita urticanti allergie in canali uditivi più sensibili a espressioni del tipo: società aperta, frontiere abbattute, multiculturalismo religione civile di questo tempo storico, cittadinanza universale, destrutturazione di tutte le identità connotative: da quella di genere all’appartenenza etnica e geografica? Parole e locuzioni estrapolate dai capitoli più velenosi di un’ideologia negatrice dei valori supremi del patriottismo.
Se avessimo maggiormente a cuore i destini della nostra comunità nazionale, almeno quanto ci preoccupiamo ciascuno dei propri, dovremmo provare ad alzare la testa per scorgere la realtà che vive oltre i lockdown promessi e attuati dai governanti di turno e guardare a ciò che può fare bene all’anima di questo Paese, a renderla più tonica e reattiva a tutte le sciagure che si abbattono su di essa. Il generale Marco Bertolini, già comandante del Coi (Comando operativo di vertice interforze) e della brigata paracadutisti Folgore, dalle pagine on-line di “Formiche.net”, ha rivolto un accorato appello agli italiani a riscoprire il 4 novembre, che sentiamo di sottoscrivere dalla prima all’ultima parola. Si tratta di ritrovare una ricorrenza condivisa “nella quale solennizzare la nostra appartenenza a un Paese unito e grande nonostante le difficoltà e con la quale celebrare le ragioni del nostro vivere insieme in quanto italiani, e non perché virtuosi o reprobi, destri o sinistri, cattolici o laicisti”.
La festa nazionale del 4 novembre fu istituita, a tutti gli effetti civili, con regio decreto n.1354, il 23 ottobre 1922, a un anno dalla tumulazione della salma del Milite Ignoto nel sacello dall’Altare della Patria a Roma. E tale rimase fino al 1977 quando fu trasformata in “festa mobile” (legge 54 del 5 marzo 1977) con la quale si prescriveva lo svolgimento di celebrazioni istituzionali la prima domenica di novembre onde evitare la festività infrasettimanale per studenti e lavoratori. Chi di noi ha avuto la ventura di essere bambino negli anni Sessanta, non può aver dimenticato cosa toccasse fare con l’approssimarsi del “ponte di Ognissanti”: mandare a memoria la Canzone del Piave, quella che il Piave mormorava calmo e placido al passaggio/ Dei primi fanti, il ventiquattro maggio. Non che da fanciulli capassimo l’intrinseco significato storico-politico della ricorrenza trasmesso attraverso il testo della canzone, ma di certo ne percepivamo l’importanza per la connessione al concetto di patria che cominciavamo a comprendere nella sua dimensione sostanziale. Non è stato tutto sommato uno sforzo inutile imparare a cantare quell’inno d’orgoglio e di speranza visto che un’Italia bella e prospera, benché carica di contraddizioni e a tratti sbilenca, l’abbiamo tirata su. I giovani d’oggi non sanno cos’abbia rappresentato il Piave per generazioni d’italiani e neanche sanno chi fossero i “ragazzi del ‘99”, quelli che Peppone e Don Camillo avevano conosciuto sulle pietraie del Carso in quei preziosi momenti, passati fianco a fianco nel fervore della battaglia. Ora, si fanno banchetti per raccoglie firme in favore di proposte di legge d’iniziativa popolare su molte cose, anche giustissime. Perché allora non allestirne qualcuno per riprenderci, da italiani, lo spirito originale del nostro 4 novembre?
Aggiornato il 06 novembre 2020 alle ore 09:49