Il ribollir de’ tini nei palazzi della politica

Il dibattito sui rapporti fra maggioranza e opposizione si sta facendo sempre più acceso. Come il “ribollir de’ tini”, anche il ribollire della politica testimonia un fermento in corso: l’urgenza di intrecciare nuove intese tra le forze parlamentari in modo da presentare i provvedimenti economici e le limitazioni delle libertà personali come scelte condivise.

Un sussulto di responsabilità? Così può sembrare all’apparenza, ma riflettendo con attenzione le cose stanno diversamente.

Se il Capo dello Stato auspica da tempo un percorso di condivisione istituzionale per il bene del Paese e lo fa sicuramente senza perseguire fini ulteriori, è probabile che i due principali partiti di maggioranza abbiano male inteso il suo monito e utilizzino l’appello all’unità per scopi che con quel bene hanno poco a spartire. Il loro doppio intento pare essere piuttosto quello di placare gli animi dei contestatori e consentire al Governo di proseguire la navigazione addirittura col consenso delle forze di minoranza.

Che queste siano le reali finalità del Partito Democratico e del Movimento 5 Stelle è testimoniato dal fatto che non intendono, per un verso, riconoscere gli errori fin qui commessi e, per un altro, mettere sul tavolo del confronto le dimissioni dell’intero Esecutivo. Nelle dichiarazioni di queste ore, infatti, né Nicola Zingaretti, né Luigi Di Maio hanno posto in discussione, neanche di passata, la prosecuzione dell’esperienza del Conte bis. E neppure Matteo Renzi, che pure con Italia Viva ha criticato aspramente le scelte di Giuseppe Conte, ha fatto cenno a possibili dimissioni.

Questa “reticenza”, che mal cela un irresponsabile e accanito attaccamento al potere, si trasforma in impedimento oggettivo alla costruzione di alternative di governo in grado di traghettare il Paese alla prossima primavera e poi al voto, prima che il “semestre bianco” impedisca al Presidente della Repubblica lo scioglimento delle Camere.

Detto in maniera ancora più netta: mentre si chiede all’opposizione di condividere le misure restrittive delle libertà e l’esplosione del debito pubblico, i principali partiti di maggioranza truccano le carte del dialogo escludendo la possibilità che l’Esecutivo rassegni le dimissioni. Il loro vero scopo è quello di rimanere, in un modo o in un altro, in sella e in questa logica hanno l’impudenza di trasformare le rivolte di piazza da uragano in arcobaleno, facendole diventare paradossalmente scudo protettivo del Governo stesso, giacché motivo ulteriore per invocare il supporto delle opposizioni. Opposizioni che, negandolo, diventano o diventerebbero meccanicamente forze irresponsabili e perfino il male del Paese. Un paradosso, appunto.

Davanti a questa strana commedia, allora, sono proprio le opposizioni a dovere irrompere sul palcoscenico. Come? Giocando la sola carta che in questo momento hanno in mano, ossia ritrovandosi compatti intorno alla proposta che Giorgia Meloni ha lanciato sul Corriere della Sera di qualche giorno fa: legare un eventuale patto di unità nazionale alla durata dell’emergenza sanitaria, mettere nero su bianco compiti e ruoli riservati ad ogni attore politico e, chiusa l’emergenza, con la garanzia anticipata del Presidente della Repubblica, andare al voto.

Come si vede, è una proposta lineare, chiara e ragionevole, che stana tutti e costringe tutti ad uscire allo scoperto. Se quel che interessa davvero, è il bene del Paese, la proposta consente ad ogni partito di dimostrare concretamente la sua intransigenza morale e onestà intellettuale.

Invece, se i reali obiettivi di chi invita l’opposizione alla collaborazione sono quelli di arrivare all’elezione del nuovo Capo dello Stato a gennaio 2022 e di iniziare nel frattempo a gestire i miliardi che arriveranno dall’Unione europea nel 2021, allora, il rischio concreto è che dal “ribollir de’ tini” possa uscire non “l’aspro odor dei vini” che va “l’anime a rallegrar”, come cantava Giosuè Carducci, ma aceto rosso sangue.

(*) agiovannini.it

Aggiornato il 02 novembre 2020 alle ore 09:52