
Parlare seriamente di Covid è complicato. La pandemia ha messo a nudo la contraddizione di questo tempo di crisi che si focalizza sull’incapacità della politica di conciliare il perseguimento di due diritti fondamentali del cittadino: la salute e il lavoro. Non è nel dna della società civile, che è luogo d’elezione dell’agire d’interessi concorrenti, individuali e di gruppo, l’appagamento di tutte le istanze: a qualcosa bisogna rinunciare per garantire l’equilibrio sociale. Vivere la modernità comporta vantaggi ma anche rinunce che possono essere dolorose.
Le organizzazioni politiche più solide si attrezzano a gestire le fasi critiche, quelle invece dalla storia partitica meno radicata e più fluida, come in Italia i Cinque Stelle, sono costrette a giocare a dadi con la Dea Fortuna. Tuttavia, non sempre l’italico stellone riesce a coprire la via di fuga dalle responsabilità di chi ha l’onere di guidare il Paese. È ciò che accade nell’Italia alle prese con la minaccia di un secondo tempo del Coronavirus. Non pensiamo che l’attuale premier e tutta la squadra dei ministri abbiano un dichiarato intento autoritario nell’emanare provvedimenti che limitano le libertà personali, anche se è forte il sospetto che il signor Giuseppe Conte stia lucrando sulla pandemia per trarne vantaggi politici personali. Il virus circola e al momento non c’è modo di fermarlo se non applicando misure di distanziamento sociale, le quali limitano la circolazione e la socializzazione ai cittadini. Comprimere le libertà individuali per un Governo è sempre un grosso rischio, soprattutto quando non si hanno le idee chiare sul tempo di durata della sospensione dei diritti fondamentali. Ma se non lo si facesse si correrebbe il rischio del diffondersi del contagio.
L’Italia non è nuova a questo tipo di dilemma. Nel caso dell’approvazione della “Legge Reale”, dal nome del suo proponente, nel 1975 vi fu da scegliere tra libertà e sicurezza. Le norme introducevano un duro inasprimento della legislazione penale, con significative limitazioni alla libertà personale, allo scopo dichiarato di combattere il terrorismo. Anche allora il dibattito presso l'opinione pubblica fu molto acceso tra sostenitori e contrari alle norme speciali della “Reale”. Il dato storico restituisce la sconfitta del terrorismo e il rafforzamento della democrazia.
Oggi stare chiusi in casa e tenere la mascherina rappresentano i soli rimedi preventivi efficaci nel contrasto al Covid, ma come ogni farmaco in circolazione anch’essi prevedono delle controindicazioni. La prima delle quali sia chiama lavoro. Che sia dipendente, autonomo, a tempo determinato o permanente; del lavoratore in senso stretto o dell’imprenditore che fa impresa, non fa differenza. Il distanziamento sociale è incompatibile con l’esercizio di attività lavorative, quindi con la produzione di ricchezza. E come ben si può immaginare quando il Pil si ferma lo Stato e la società sottostante che esso governa colano a picco.
L’odierna alternativa potrebbe centrarsi sulla scelta tra il morire di Covid o di miseria. D’altro canto, pensare di salvare capra e cavoli con l’assistenzialismo pubblico a oltranza non è possibile. Anche se si volesse non si potrebbe dal momento che l’Italia non batte più moneta. Non si può stampare danaro senza limiti per drogare il ciclo economico. Si possono, invece, contrarre prestiti, che è ciò che ci chiede di fare l’Unione europea con i falsi Piani Marshall che sta mettendo a punto a Bruxelles. Ma i prestiti recano un’incrollabile certezza ai debitori: essi vanno ripagati, e con gli interessi. Ciò pone un limite molto serio all’allegria da naufraghi dei politici nostrani che puntano sulla pioggia di denari promessi da Bruxelles per coprire tutte le falle del sistema messo in crisi dal virus: non si possono contrarre debiti in misura superiore alla capacità di restituzione degli stessi. E qual è il nostro potenziale di solvibilità tenendo conto che già prima della pandemia avevamo un gigantesco debito pubblico sul groppone? Non certo per quel migliaio di miliardi di euro che occorrerebbe per tenere il Paese sospeso per qualche anno in una condizione d’inerzia del ciclo produttivo indotta mediante la sterilizzazione temporanea dei bisogni della popolazione, ad eccezione di quelli indispensabili alla sopravvivenza fisica degli individui.
Una soluzione ci sarebbe, che piace enormemente alla sinistra: mettere mano al risparmio privato che, essendo quattro volte superiore all’attuale debito pubblico, potrebbe ampiamente garantire copertura a un consistente sforamento in deficit dei conti per finanziare la spesa corrente in misure allargate di sostegno al reddito. Il mezzo per togliere i soldi dalle tasche degli italiani si chiama “Patrimoniale”. Se è questa la soluzione che ha in mente il Governo lo dica e si faccia carico della reazione popolare. A meno che il piano non sia di portare allo sfinimento della popolazione attraverso lo stillicidio di notizie allarmistiche sul ritorno incombente del contagio, propedeutico al colpo finale dello svuotamento forzoso dei conti correnti per “dare oro alla Patria”.
In alternativa, la strada più coerente con il principio democratico sarebbe quella di lasciare ai cittadini l’onere di sciogliere il dilemma amletico dell’essere o non essere, se sia più giusto chiudere tutto per evitare il morbo e rischiare così di morire di inedia e di stenti oppure decidere di continuare a vivere una vita normale mettendo in conto i ferali strali del Covid. La salute vale la dura legge della tasca? La risposta può mutare a seconda del punto di osservazione dell’interrogato. È umano che il responso di chi è sotto la tenda d’ossigeno non corrisponderà a quello di chi parla avendo davanti la saracinesca abbassata del suo negozio. Lo strumento per venire a capo di situazioni in cui gli opposti non si conciliano si chiama voto. La maggioranza decide.
La bugia più grossa alla quale Giuseppe Conte ha agganciato il suo personale destino politico è che nello stato d’emergenza il popolo non si possa esprimere e che tutte le attività connesse all’esercizio democratico debbano essere sospese. Non è vero. Mai come in quest’ora di decisioni irrevocabili chiamare gli italiani a una corale prova di responsabilità attraverso il voto sarebbe un atto di assoluto valore istituzionale. Nello stato d’eccezione è compito del sovrano fornire un indirizzo preciso al legislatore e all’esecutivo su quale strada dover proseguire. Ma per avere l’umiltà di rivolgersi al popolo per chiederne l’aiuto nel momento in cui una decisione definitiva non la si può o si sa prendere, bisognerebbe avere una classe di statisti di altissimo profilo alla guida della nazione. Noi l’abbiamo? No, per niente. Al Governo sono finiti dei parvenu che hanno mostrato grandi attitudini a imbrogliare le carte pur di restare incollati alla poltrona.
Lo scenario più verosimile che ci attende sarà quello di un governicchio che si para dietro i pieni poteri al presidente del Consiglio, che a sua volta sforna a ritmo costante decreti presidenziali contraddittori, confusi, inutili, pericolosi, sordi alle istanze dei territori, pur di giustificare la propria permanenza al comando. Si continuerà col cerchiobottismo tra tutela della salute e difesa del Pil che alla lunga non garantirà né l’uno nell’altro diritto. A questo punto non ci resta che sperare che sia il virus a suicidarsi perché se fosse per il Conte bis, per la rendita di posizione che gli ha assicurato il Covid andrebbe in pensione con la “Fornero”.
Aggiornato il 15 ottobre 2020 alle ore 14:07