
Chiusa la finestra elettorale delle regionali, è ripresa la corsa al centro. Non quello evocato da Franco Battiato in una splendida canzone degli anni Ottanta, ma quello politico. Alcune associazioni cattoliche hanno costituito in questi giorni “Insieme”, promosso e idealmente guidato da Stefano Zamagni. E sempre in questi giorni ha visto la luce “Base Italia” di Marco Bentivogli e Luciano Floridi.
Queste nuove realtà si aggiungono ad altre, d’ispirazione più marcatamente liberale, germogliate mesi prima: da “Destra Liberale”, guidata da Arturo Diaconale, a “Centro Motore”, ispirata da Marco Taradash, da “Progetto Italia”, nata su impulso di Massimo Baldini e presieduta da Carlo Malinconico, a “Voce Libera”, di Mara Carfagna, fino ad “Azione” di Carlo Calenda e a “La Buona Destra”, portata avanti da Filippo Rossi.
Nel cielo della politica poi si contano numerose aggregazioni già divenute partiti veri e propri, e che, pur appartenenti a schieramenti diversi, non si allontanano troppo dal centro: “Cambiamo” di Giovanni Toti, “Italia Viva” di Matteo Renzi, “Noi con l’Italia” di Maurizio Lupi, “Più Europa” di Benedetto Della Vedova e animata da Emma Bonino, l’Unione di centro (Udc), attualmente guidata da Lorenzo Cesa; il “Popolo della famiglia”, retto da Mario Adinolfi, la Democrazia Cristiana, con quattro braccia come la dea Kalì e sette vite come i gatti.
Al di là dei contenuti e degli scopi, spesso difficilmente distinguibili tra una forza e l’altra, di certo in tutte ricorrono almeno due caratteristiche, per così dire, strutturali. Nessuna di esse, verosimilmente, avrà l’autosufficienza per portare in Parlamento propri rappresentanti alle elezioni nazionali.
La seconda caratteristica, la più importante per il nostro discorso, è che tutte giocano al centro, perché è lì che ritengono di trovare voti, tanti o pochi che siano. Sono tutte alla ricerca, cioè, di quella porzione di elettorato che, dopo una lunga traversata nel deserto, dopo aver votato a destra o sinistra col “naso turato”, perché orfano di forze “moderate” di massa, potrebbe essere disposto a trovare la propria “gravità permanente”, appunto, in un nuovo partito centrista o centrale.
Il tipo di elettore al quale guarda la prevalenza di quelle associazioni e di quei partiti, insomma, proviene da un’area genericamente definibile come moderata e moderatamente riformatrice, liberale e moderatamente solidaristica, cristiana e moderatamente laica, non populista e moderatamente riflessiva, non sovranista e moderatamente e criticamente europeista.
Se le cose stanno così, appare evidente che la frammentazione delle forze centriste non soltanto è inutile, ma anche dannosa per lo stesso progetto politico che intendono portare avanti.
Escludendo, forse, le aggregazioni più ortodosse sorrette da ideali etici o pseudo confessionali, perseverare nella moltiplicazione dei pani e dei pesci è scelta suicida. Quelle stesse forze saranno infatti destinate, alla fine, ad una rilevanza marginale per la esiguità del consenso che, singolarmente considerate, saranno in grado di raccogliere. Certo, potranno portare acqua al mulino dello schieramento di appartenenza e pure avere qualche scranno o ministero, potranno ottenere l’accelerazione o il rallentamento dell’approvazione di una legge, di un finanziamento o progetto specifico.
Ma è questo quello di cui ha bisogno il Paese? Che gli elettori in cerca di una nuova casa saranno disposti a premiare? È questa la proposta in grado veramente di aiutare famiglie e imprese, professionisti e lavoratori, disoccupati e giovani a superare il più drammatico tornante della storia degli ultimi settant’anni?
La presenza di forze centriste contribuisce senz’altro a garantire stabilità al sistema democratico, a mantenere viva la pluralità ideologica e a rinverdire le profonde radici culturali presidio delle libertà. Ed è per questo che quella presenza deve essere incoraggiata. A condizione però che non sia una presenza fatta da aggregazioni di risulta, frutto di una catena infinita di scissioni, di rivincite personali o peggio della megalomania del leader di turno. E a condizione che siano in grado di esprimere un pensiero forte di Paese, costruito su obiettivi di sistema, tra di essi coerenti e coordinati, realizzabili concretamente.
Chi ritiene che il centro in politica ancora esista e sia prezioso ricostruirlo in forma partitica, non può che adoperarsi per un partito di massa e popolare, capace di fare sintesi di idee e azioni, di far convivere posizioni divergenti per il raggiungimento di un superiore obiettivo comune: la rinascita del Paese di fronte alla peggiore crisi democratica, economica e culturale della storia recente. Il resto, ossia lo “spezzatino”, è vanità, direbbe il libro sapienziale di Qoèlet.
Aggiornato il 12 ottobre 2020 alle ore 08:39