Il Governo Conte bis è saldo sulle sue intrinseche fragilità. Si tratta di un bizzarro fenomeno fisico che si produce nel mondo della politica. Più sono vulnerabili i protagonisti di un patto di potere, maggiore ne è il grado di resilienza. Tuttavia, anche l’arroccamento più granitico può avere un punto debole. È la buccia di banana che, per definizione, non è prevedibile. Finirci sopra e capitombolare è un evento inaspettato. Quando accade ci si domanda come sia stato possibile cascare. Difficile trovare una risposta che non coinvolga l’ignota trama del Fato.
Ora, non è dato di sapere preventivamente se e quale sarà la buccia di banana su cui Giuseppe Conte si romperà il coccige, ma un’ipotesi la si può azzardare. Più che una sarebbero 18 le bucce di banana, quanti sono i malcapitati pescatori, in maggioranza italiani di Sicilia, sequestrati dalla banda armata di Bengasi che fa capo al sedicente ras della Cirenaica, Khalifa Haftar. La vicenda finora non ha fatto gran rumore. Oggi però il fattaccio non può essere nascosto all’opinione pubblica perché le famiglie dei pescatori, arrabbiatissime, sono andate a Roma a protestare contro l’incapacità del Governo italiano a risolvere la crisi. Ricostruiamo l’accaduto.
Il primo di settembre unità navali libiche che rispondono agli ordini del generale Haftar hanno sequestrato, a 36 miglia al largo delle coste della Cirenaica, due imbarcazioni della flotta peschereccia di Mazara del Vallo e tratto in arresto i rispettivi equipaggi. I pescatori sono stati trasferiti nel carcere di El Kuefia a 15 chilometri a sud est di Bengasi. Altri due pescherecci italiani presenti in zona sono riusciti a sfuggire all’aggressione. È passato un mese e non si hanno notizie del rilascio dei pescatori fermati. In realtà, la situazione si è parecchio complicata perché è apparso chiaro che non si trattasse di un’ordinaria prova di forza nell’ambito della vexata quaestio sulla pretesa libica di rivendicare come acque della propria zona di interesse economico esclusivo, istituita unilateralmente nel 2005 e che si estende per 62 miglia oltre le 12 miglia convenzionali delle acque territoriali nazionali, quelle in cui sono stati catturati i pescherecci. Si è temuto che l’aggressione potesse avere un movente politico. Il sequestro, infatti, è avvenuto a poche ore dalla conclusione della visita a Tripoli del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, seguita all’annuncio dell’accordo per il cessate il fuoco tra le parti in conflitto: Tripoli e Bengasi.
Nella circostanza, Di Maio ha omaggiato il premier tripolino Fayez al-Sarraj ed elogiato la controparte, il presidente del Parlamento di Tobruk (Cirenaica) Aguila Saleh, snobbando platealmente Khalifa Haftar, capo dell’esercito che combatte il Governo di Tripoli per conto del Governo della Cirenaica. Tuttavia, col passare dei giorni anche questa motivazione è parsa insufficiente a spiegare il comportamento del ras di Bengasi.
Se il motivo dell’aggressione si fosse limitato allo sgarbo, percepito come tale da Haftar, la questione si sarebbe potuta risolvere con una dichiarazione del titolare della Farnesina volta a riconoscere il ruolo del generale nel futuro della Libia. Invece, alcune settimane orsono è circolata la notizia che Haftar avrebbe deciso di usare i nostri connazionali come merce di scambio con l’Italia. Dal 2015 sono ospitati nelle galere italiane alcuni pendagli da forca libici accusati di esseri gli scafisti della tristemente nota “strage di Ferragosto” che causò la morte di 49 immigrati soffocati nella stiva di un’imbarcazione in rotta verso le coste italiane. Tre degli arrestati sono stati riconosciuti colpevoli e condannati con sentenza definitiva ciascuno a vent’anni di reclusione per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e omicidio. Altri cinque presunti componenti dell’equipaggio, a processo con rito ordinario davanti la Corte d’assise d’appello di Catania, sono stati condannati in primo grado a 30 anni di reclusione. Una pena esemplare che non è piaciuta ai libici i quali sostengono che gli aguzzini non sarebbero tali ma solo bravi ragazzi desiderosi di fare fortuna nel calcio europeo e finiti per caso a bordo del barcone della morte.
In disaccordo con le sentenze, evidentemente il capobanda di Bengasi ha pensato di sequestrare i nostri concittadini per costringere Roma a uno scambio: la consegna dei criminali in cambio della libertà di diciotto onesti lavoratori italiani. Roma ha giocato alla sua maniera, andando per le lunghe. Haftar allora ha deciso di alzare la posta. Il 22 settembre scorso l’Agi (Agenzia giornalistica italiana) è venuta in possesso di foto che mostrano, messi in bella vista sulla banchina dov’è attraccato il peschereccio sequestrato “Medinea”, alcuni involucri di colore giallo che si presume contengano droga. La mossa è chiara: per costringere l’Italia a cedere, incastrano i pescatori catturati con l’accusa di trasporto di sostanze stupefacenti. Il che vorrebbe dire tenerli in galera e buttare via la chiave. In condizioni ordinarie, la crisi non dovrebbe preoccuparci. Non è una novità che nel mondo vi siano feroci predoni abituati a ricattare i Paesi dell’Occidente: è il loro modo di negoziare. Il fatto è che il nostro Governo ha dimostrato di non avere una politica estera e, peggio, di non avere alcuna capacità di reggere prove di forza. Dopo l’atto violento del capobanda Haftar sarebbe stata necessaria una risposta muscolare per convincere i sequestratori che non si fanno trattative con l’Italia puntandole una pistola alla tempia. Un’esercitazione aeronavale di alcune unità della nostra Marina militare a largo delle coste di Bengasi sarebbe servita a chiarire i rispettivi ruoli e pesi in campo.
Purtroppo, l’unico modo che questo Governo conosce di fare politica estera è di non prendere alcuna decisione e di lasciare che le cose accadano nella speranza che si risolvano da sole. È stata l’insipienza dei Governi della sinistra e, a ruota, del Conte double face a consentire che la Libia ci venisse sfilata dalle mani e che nella partita entrassero praticamente tutti e, in ultimo, anche la temutissima Turchia che ha portato il suo apparato offensivo fuori l’uscio di casa nostra. Se anche in quest’occasione Roma decidesse di non decidere potrebbe divampare un incendio di collera tra la popolazione che Conte, il temporeggiatore, non riuscirebbe a spegnere. Pensate alla Sicilia, a Lampedusa, al sovraffollamento degli hotspot che spaventa le comunità locali, allo sbracamento del Governo sulla questione dell’immigrazione, al tentativo di eliminare il nemico politico (Matteo Salvini) per via giudiziaria proprio sul contrasto agli sbarchi di clandestini, alla desolante dichiarazione della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese che, intervenuta lo scorso 7 settembre al Forum Ambrosetti a Cernobbio, ha candidamente affermato: “Non possiamo certo bloccare i barchini affondandoli. Non devono partire”. Con ciò palesando l’assoluta mancanza (si sospetta voluta) di uno straccio di strategia di contrasto al fenomeno dell’immigrazione clandestina.
All’inverarsi dell’incidente imprevisto, della buccia di banana, tutti insieme gli eventi richiamati confluirebbero a formare una miscela esplosiva sotto la poltrona del premier. Ecco perché dovendo scommettere su uno scivolone inaspettato della traballante maggioranza, più che ai grandi temi che dividono i Cinque Stelle dagli alleati, sui quali un accordo al ribasso pur di restare in sella si trova sempre, puntiamo sulla vicenda dei 18 ragazzi prigionieri a Bengasi. La loro storia, per come procede e per come finirà, potrebbe fare ruzzolare malamente l’inquilino di Palazzo Chigi e tutta la combriccola governativa.
Aggiornato il 01 ottobre 2020 alle ore 11:07