
Debbo sinceramente ringraziare il Rettore dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, Lucio d’Alessandro, perché, criticando da queste colonne un mio articolo con il quale rappresentavo la necessità di formare giudici-giuristi e non giudici-funzionari, mi offre la possibilità di un dibattito pubblico, attraverso un giornale libero come questo, nel solco di una veneranda tradizione che purtroppo negli ultimi anni aveva fatto segnare una qualche battuta d’arresto, probabilmente dovuta al fiorire di mezzi alternativi ed elettronici di comunicazione.
E principio con una rassicurazione che mi pare altrettanto dovuta al Rettore. Non tema: conosco benissimo le carceri dall’interno (nella quotidianità della vita reclusa) e dall’esterno (nella loro organizzazione normativa e nella loro amministrazione), per aver svolto per anni (da figlio e nipote di magistrati) il ruolo di magistrato di sorveglianza e di presidente facente funzioni dell’omonimo Tribunale. Ritengo perciò superfluo il consiglio di visitare le carceri, indirizzatomi dal Rettore.
Venendo, invece, al merito della questione, dico subito che non ho mai inteso negare l’importanza dell’Università, le cui benemerenze ben conosco e diffondo, avendovi insegnato, sia in quella pubblica che in quella privata, per anni.
Anzi, proprio al contrario. Sono convinto che solidi e ben fatti percorsi di studio siano la condizione necessaria anche per la formazione dei magistrati.
Tuttavia, non ne sono anche la condizione sufficiente, sia per come viene oggi pensata ed attuata la formazione universitaria, sia perché, al di là di ogni progetto didattico e del suo ripensamento, in essa – come osservavo nel mio articolo – manca, tendenzialmente, la vita: il che, francamente, non è poco. E tanto più per coloro che intendono fare, del giudicare, una “professione”, con quel tanto di para-teologico che questo termine nell’uso comune implica, per la sua prossimità alla fede, e che richiede comunque lo si faccia con “timore e tremore”.
Di questa tragica mancanza, del resto, dà prova lo stesso argomentare del Rettore allorché, per un verso, insiste sul ragionamento giuridico quale luogo elettivo delle domande e delle risposte che il giurista si pone e, per altro verso, indica Natalino Irti quale figura paradigmatica di riferimento per gli studenti.
Infatti, il ragionare giuridico – del tutto imprescindibile, come ben sanno, fra gli altri, i raffinati cultori della logica giuridica – ha bisogno di un fondamento sul quale edificarsi in modo coerente e corretto, ma questo fondamento non si trova affatto nelle norme e neppure nei ragionamenti, bensì nella vita, in quella dimensione cioè sulla quale tanto insisteva Giuseppe Capograssi (oggi forse dimenticato), chiamandola, in un suo celebre saggio, “esperienza comune” e della quale proponeva al giurista una meditata e profonda “analisi”, quale antidoto prezioso contro il formalismo giuridico, tanto pernicioso per il giurista, quanto esiziale per la verità del ragionamento giuridico, prima del quale – è il caso di ricordarlo – viene il pensiero (ogni logica è pensiero, ma non tutto il pensiero si riduce alla logica, essendovi anche quello ana-logico). Non a caso, Kafka, nella chiusa de “Il processo”, nota che la logica è una bella cosa, ma non basta ad un uomo “che vuole vivere”.
E non a caso in alcune massime, facendo germinare quella che chiamo, con termine forse sgradevole, ma efficace, la giurisprudenza “dell’ombelico” (capace di vedere cioè solo a pochi centimetri dal proprio naso), la Cassazione si parla addosso, dimenticando del tutto il caso della vita di cui si tratti.
Ed è proprio questa verità – del diritto e insieme della vita – che Natalino Irti, la cui dottrina viene assunta quale paradigma dal Rettore, nega recisamente in tutta la sua lezione pluridecennale, inaugurando in tal modo un rinnovato formalismo giuridico (neo-kelseniano?), tramite il quale far scendere definitivamente l’oblio su ogni esigenza di giustizia, che, del diritto, rappresenta invece, in tutta la nostra plurisecolare storia, la piena verità: insomma, un nuovo “nichilismo giuridico” (del quale non si sentiva affatto bisogno).
Da qui, appunto, per Irti, secondo il titolo di un suo ben noto saggio, un “Diritto senza verità” (calco nominalistico e teoretico dell’“Etica senza verità”, pubblicata trent’anni prima e dovuta al compianto Uberto Scarpelli), vale a dire senza giustizia, lontano dalla vita.
Emerge allora una domanda tanto semplice quanto (come sono tutte le domande semplici) radicale e necessaria: che farsene di un diritto senza verità, cioè senza giustizia, lontano dalla vita?
Nulla, meno che nulla. Spiace, ma si tratta di un diritto da buttar via, in quanto sotto le forme giuridiche non si cela altro che la volontà di chi goda del potere di porre le norme, più o meno coerenti, più o meno credibili, ma sempre e soltanto espressione appunto di volontà e non di ragione, perché la ragione è stata già espulsa insieme alla giustizia, come in ogni positivismo che si rispetti. Con le parole di Sant’Agostino, “remota iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia”? (“Abbandonata la giustizia, cosa sono i regni se non grandi associazioni a delinquere?).
Di qui, la mia preoccupazione per i giovani, che ora, purtroppo, dopo le osservazioni del Rettore, ne esce alimentata. E ancor di più se costoro oseranno – perché di osare, a ben guardare si tratta – giudicare per professione.
Sicché, essendo proprio compito dei funzionari – e non dei giuristi – quello di dar corso al disposto delle norme, senza preoccuparsi del tasso di giustizia che le accompagni, temo si possa così realizzare la profezia di Paul Valéry, quando stigmatizzava che i “competenti” sono coloro che sbagliano ma “secondo le regole”.
A ciò si aggiunga che il fatto che parte dell’insegnamento sia affidato a magistrati – nella temperie politica e culturale attuale – non esenta dai dubbi circa una spartizione correntizia delle docenze, come in passato è spesso accaduto.
E qui, non si tratta di “entrare a gamba tesa” su nessuno, come invece teme il Rettore. Basti rileggere, in proposito, le meditate pagine che Salvatore Satta, già a metà degli anni Settanta del secolo scorso (quasi cinquant’anni or sono!), dedicava al malcostume della lottizzazione correntizia fra i magistrati, su “Quaderni del diritto e del processo civile”; o, ancora, le celebri riflessioni introduttive dei suoi corsi sull’esecuzione forzata, che vanno nel medesimo senso.
Cose note e arcinote, insomma ed oggi perfino deflagrate nella cronaca giornaliera; e delle quali non credo l’Università possa non tener conto, fingendo che il problema non esista.
Infine, dubito che dopo un triennio di studi, si possa inaugurare un biennio di specifica preparazione per i futuri magistrati.
La giurisprudenza (e non le “scienze giuridiche”, come oggi si tende a definirla, declassandone la nobile tradizione), infatti, non potendosi identificare con una tecnica, non tollera di essere ridotta ad un sapere assimilato alla ingegneria meccanica o alla informatica; non tollera perciò di essere considerata uno strumento per formare dei tecnici in senso proprio. Essa gode dello statuto epistemologico tipico delle humanities, perché forma, prima di tutto esseri umani pensanti e senzienti sub specie iuris, cioè appunto giuristi.
Soltanto dopo, ogni giurista potrà declinare la propria sensibilità in un verso o nell’altro, decidendo di darsi alla pratica forense o di tentare il concorso in magistratura.
E allora, invece di seppellirlo di insegnamenti vacui impartiti da docenti votati all’impossibile (diritto dell’informatica, della concorrenza, dell’anti trust, dei reati assicurativi e via di questo passo…), si faccia studiare all’aspirante giurista la buona letteratura capace di aprirgli la mente verso la vita reale, i grandi classici capaci di affinare il senso giuridico, le materie davvero formative oggi neglette (Diritto romano e tutte le romanistiche in genere, filosofia e teoria generale del diritto, storia del diritto, diritto comune, le quaestiones scolastiche ecc…); lo si faccia accostare alla migliore tradizione estetica, ricordandogli come – secondo Celso – il diritto altro non è che “ars boni et aequi”, perché la giustizia, quando si manifesta, è sempre “bella”; si aprano insomma le porte dell’Accademia, tradizionalmente chiuse e sorvegliate da arcigni custodi, per far spirare il vento della vita.
Dovremmo tutti sempre ricordare che – come scriveva Plutarco – “la mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma come legna, di una scintilla che l’accenda”.
Mi auguro che il corso del Suor Orsola accenda questa scintilla. Tuttavia, leggendo la sua diligentissima replica – non me ne voglia il Rettore – mi permetto di dubitarne.
Aggiornato il 29 luglio 2020 alle ore 09:42