Il dolore del Comandante

È molto triste vedere il generale dei Carabinieri Giovanni Nistri doversi scusare davanti alle telecamere a seguito dei fatti incresciosi di Piacenza ove sei delinquenti hanno nuovamente infangato il nome dell’Arma. Fare il comandante è difficile e il dolore che può provare in momenti come questi è difficilmente dissimulabile. Al pari di un Wilhelm von Thoma al cospetto di Bernard Law Montgomery dopo El Alamein anche Nistri ad epigono di altri episodi disdicevoli ha subito una sconfitta morale tale da portarlo a dover ripetere che bisogna aver fiducia nell’Arma e che i colpevoli saranno trattati con il dovuto rigore. Il comandante oltre agli uomini questa volta ha perso anche un avamposto territoriale, come in una guerra che invece di essere combattuta contro nemici esterni deve guardarsi da quelli interni. I presunti delinquenti stando alle accuse non si sono limitati a entrare nella rete dello spaccio di stupefacenti e delle estorsioni ma avvalendosi del più distorto uso della divisa pare commettessero arresti illegali e infierissero sulle vittime torturandole. Questi reati più di ogni altro feriscono chi tutti i giorni non conosce orario per rendersi utile alla popolazione e conseguire risultati nella lotta alla criminalità. Da anni l’Arma indirizza ogni possibile sforzo per diffondere le fondamenta del diritto umanitario e dei diritti umani.

Sono materie che vengono insegnate nelle scuole di ogni ordine e grado in linea a quanto segnato da Pietro Verri, il generale dei Carabinieri che dall’immediato Dopoguerra ha speso ogni giorno della sua vita affinché queste discipline divenissero familiari per tutti gli studenti militari. Materie che trattano valori già presumibilmente posseduti da chi sceglie di entrare a far parte di un mondo la cui ricchezza è conferita proprio da taluni ideali. Riscontrato nella quotidianità che per la quasi totalità dei Carabinieri resta l’orgoglio dell’appartenenza ad un mondo esclusivo in cui viene messo in conto anche il supremo sacrificio ci si chiede perché possano accadere episodi come quello di Piacenza senza che nessuno se ne accorga. Probabilmente è venuta meno la rigorosa disciplina che da sempre ha caratterizzato l’Arma non per colpe di quest’ultima ma del contesto attualizzato. Un tempo un capitano comandante di compagnia aveva strumenti insindacabili per correggere comportamenti non in linea all’etica e alle tradizioni dell’Arma. Se un dipendente conduceva vita di tenore superiore a quella consentita dal pur dignitoso stipendio che percepiva doveva fornire spiegazioni. Ora se lo stesso comandante entrasse nel merito della vita privata di un carabiniere che, al pari di quelli arrestati a Piacenza, gira con auto di lusso e spende più del dovuto, rischia la denuncia.

Un tempo il carabiniere autore di gravi mancanze disciplinari poteva essere trasferito in altra sede senza appello ora per ogni provvedimento, pur minore, si ricorre al Tar. Bisogna giungere alla evidenza di fatti gravi quali quello di Piacenza per accorgersi che qualcosa non ha funzionato. Il comandante deve essere uno e se conferitagli l’autorità non può esercitare la sua azione senza interferenze collaterali i risultati saranno deboli se non nulli. Napoleone soleva dire: “Meglio un cattivo comandante che due bravi comandanti”. Non è facile gestire una comunità di 110mila persone se il comandante ad ogni livello non riacquisisce piena autorità. Si è ancora in tempo, ma se non si ritorna ad un modello organizzativo basato sulla piena fiducia gerarchica l’Arma dei Carabinieri sarà costretta a piangere altri episodi di grande imbarazzo. Per il momento continuiamo a identificare l’Arma con quelle migliaia di stazioni i cui comandanti costituiscono il punto di riferimento delle comunità in cui operano e i cui risultati quotidiani non fanno notizia alcuna.

Aggiornato il 23 luglio 2020 alle ore 11:07