Il giudice che non volle risorgere

E bravo il giudice Franco! Ne parlo, senza violare il rispetto che si deve alle persone decedute, al solo scopo di cercare di chiarire alcuni aspetti di vicende che la cronaca di questi giorni mette in evidenza.

Egli, prima ha fatto parte del collegio della Corte di Cassazione che, nell’agosto di sette anni or sono, confermando la condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale, lo condusse alla decadenza dalla carica di senatore ed alla necessità di affidarsi ai Servizi sociali; poi, inaspettatamente e dopo essere andato in pensione, lui stesso cerca Berlusconi e gli confida quello che questi già sapeva: cioè di esser stato vittima di un vero plotone di esecuzione, che si era perpetrata una grave ingiustizia ai suoi danni e che a questo scopo erano giunte pressioni dall’alto.

La cosa che mi stupisce non è tanto che queste dichiarazioni, registrate da chi era presente al colloquio, aprano squarci terribili circa il modo di amministrare la giustizia in Italia (modo che era già conosciuto e conoscibile da chi nutrisse un minimo di onestà intellettuale) – attraverso plotoni d’esecuzione invece di collegi giudicanti – ma che Amedeo Franco, pur giudicato da Franco Coppi persona preparata e comunque un galantuomo, abbia fatto ciò che ha fatto, per poi confessarlo dopo esser andato in pensione.

Poco importa, in questa prospettiva, che Berlusconi abbia ritenuto opportuno attendere la scomparsa di Franco, avvenuta verso la fine del 2019, per rendere pubbliche queste gravissime rivelazioni. Qui ed ora mi importa invece proporre una sorta di perlustrazione del comportamento di Franco dal punto di vista della reazione della sua coscienza morale di fronte a ciò che egli si rappresentava come una iniquità, tanto da aver voluto poi denunciarla.

Può essere utile in proposito prendere le mosse da un celeberrimo racconto di Lev Tolstoj, che prende titolo “Resurrezione”. Il protagonista, il principe Nechljudov, si diverte, come è noto, con una giovane contadina delle sue terre, fino a metterla incinta; ma poi l’abbandona al suo destino senza mai più rivederla. Diversi anni dopo, mentre si trova a far parte di una giuria popolare che deve giudicare imputati di vari reati, scorge, fra questi, proprio il volto della Maslova, la giovane contadina che dopo l’abbandono, per far sopravvivere il figlio, s’era acconciata perfino a prostituirsi e che ora si trovava imputata di furto ed omicidio. Colpito nel profondo dal tragico destino della ragazza, il principe fa di tutto per salvarla, ma senza poter evitare la condanna al carcere duro in Siberia. Tuttavia, non arrendendosi alla sorte e per riscattare la propria colpa che ora vede nitidamente, egli la seguirà in Siberia, accompagnandola lungo un tragitto certo di sofferenza ma che sarà alla fine di vera resurrezione (ecco perché il titolo del racconto) per entrambi.

Insomma, l’incomparabile maestria narrativa dello scrittore russo ci mette davanti allo sviluppo di un’anima che dalla sconfitta morale profonda che coinvolge altri innocenti in un vortice di perdizione, riesce a riprendere il cammino della salvezza, riscattandosi nel dolore e nella sofferenza, riesce a risorgere e a far risorgere l’incolpevole Maslova.

Questo, dunque, l’itinerario esistenziale del principe. E il giudice Franco? Cosa ha fatto il buon giudice Franco?

Nulla di tutto questo, a sentire ciò che lui medesimo ha confidato alla stessa sua vittima, cioè Berlusconi. Infatti, prima egli partecipa ad un giudizio che ben sapeva essere soltanto una sorta di autentica fucilazione dell’imputato: ecco perché lo paragona ad un plotone di esecuzione.

E ciò senza protestare, senza denunciare, serbando un silenzio anonimo e neutrale. Poi, una volta andato in pensione, decorsi gli anni e stemperate le polemiche, decide di confessare il malfatto al quale aveva comunque contribuito; e lo fa non con una conferenza stampa o tramite una intervista, ma addirittura nelle mani della vittima stessa, Berlusconi.

Forse pensava che una confessione diretta nelle mani della vittima potesse avere maggior valore, per dir così, redentivo? O invece potesse fare meno scalpore? O per cavarne comunque una qualche e a me sconosciuta benemerenza? Chissà!

Resta il fatto che – paragonato al principe Nechljudov, un gigante dello spirito – Franco appare abbastanza piccolo e mi dispiace per lui, per il ricordo che probabilmente i suoi cari ne serbano ancora. E appare piccolo perché non ebbe il coraggio e la forza che la situazione che si trovava a vivere avrebbe preteso avesse, quelli di denunciare pubblicamente e perciò di impedire la macchinazione, se, come dice lui stesso, di macchinazione era frutto quel procedimento a carico di Berlusconi.

Ecco cosa probabilmente è mancato al buon giudice Franco: il coraggio di parlare. Allora, non dopo, quando già i giochi erano fatti e le nequizie consumate e irreparabili.

Sicché, questa confessione postuma lascia come un retrogusto amaro, come di chi intenda sottoporre ad un lavacro tardivo una coscienza non ancora matura e vigile, non tanto coraggiosa da poter risorgere.

E, d’altra parte, la sublime arte di Tolstoj ce lo ha insegnato da tempo. Se risorgere dopo la morte è dovuto alla misericordia di Dio, risorgere nel corso della vita e “dalla” vita è compito nostro. E ci vuole coraggio.

Aggiornato il 03 luglio 2020 alle ore 09:40