
Se il nuovo governo israeliano, nonostante le obiezioni di praticamente tutti i governi vicini e lontani, e i moniti di molti tra i sostenitori di Israele nella diaspora, seguirà la strada promessa dal primo ministro Benjamin Netanyahu, e nelle prossime settimane applicherà unilateralmente la sovranità israeliana ad una parte della Cisgiordania, l’American Jewish Committee (Ajc) farà quello che ha sempre fatto: spiegare Israele al resto del mondo.
Spiegheremo che gli ebrei hanno vissuto in Cisgiordania – che sono la Giudea e la Samaria della Bibbia – per migliaia di anni, e che l’applicazione della legge israeliana alle terre degli insediamenti non è tecnicamente una “annessione”, che è un termine che sarebbe appropriato se il territorio conteso fosse stato precedentemente sotto la sovranità di un’altra nazione. Ricorderemo quindi che la sovranità sulla Cisgiordania da parte della Giordania, Paese che attaccò la nascente Israele nel 1948 e mantenne il controllo sulla Cisgiordania fino a quando non fu sconfitta nel 1967, non è mai stata internazionalmente riconosciuta.
Rifletteremo sulle molteplici opportunità che la leadership palestinese ha sprecato nei decenni di arrivare ad una soluzione pacifica della disputa del suo popolo con Israele, e di stabilire uno Stato indipendente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Chiederemo perché i diritti e lo status di centinaia di migliaia di israeliani devono essere tenuti in un limbo fino a quando Ramallah non affronterà la realtà che Israele non scomparirà nel nulla, e che solo un compromesso – accettabile reciprocamente, seppur malvolentieri – porrà fine al conflitto.
Suggeriremo che sarebbe ancora possibile trovare un accordo – che se i leader palestinesi uscissero dal loro mondo fantastico, risolvessero le questioni della lotta di potere tra fazioni rivali, accettassero la legittimità storica del popolo ebraico su quella terra e si impegnassero a negoziare, persino l’annessione sulla linea della “visione per la pace” del presidente Donald Trump non ostacolerebbe una soluzione a due Stati.
Respingeremo le critiche che affermano che Israele, piuttosto che consolidare la sua presenza in Cisgiordania, dovrebbe abbandonarla completamente – ricordando che gli esperti militari descrissero la linea dell’armistizio di Israele del 1967 come indifendibile, se essa dovesse essere la linea di confine con uno Stato potenzialmente ostile. Nessun Paese largo appena quattordici chilometri nella parte centrale, per giunta ad alta densità di popolazione, e con un aeroporto internazionale a sei chilometri dal confine, correrebbe un rischio del genere.
Denunceremo l’ingiustizia – anzi, l’ipocrisia – della censura internazionale contro Israele, denunciando che le violazioni dei diritti umani che vengono commesse in maniera massiccia e continua da altri Stati, vengono sostanzialmente ignorate dagli organismi delle Nazioni Unite, dalle Ong e dai media di tutto il mondo.
Ricorderemo ai membri del Congresso americano e ai nostri interlocutori in altre capitali mondiali che il valore di Israele come partner strategico affidabile in una regione cruciale e instabile non verrà in alcun modo sminuito dalla decisione di applicare le proprie leggi ai propri cittadini, i quali la maggior parte dei politici da tempo ritiene che in fondo sarebbero stati parte di qualunque accordo territoriale fattibile.
Io e i miei colleghi siamo pronti a esporre queste riflessioni. Se l’annessione – l’applicazione unilaterale della legge israeliana su alcune parti della Cisgiordania – avverrà, faremo in modo che la decisione venga presa da un governo israeliano eletto e sostenuto dal partner più potente di Israele (e di chiunque altro): gli Stati Uniti.
Mi aspetto che ci sarà chi, a Washington e all’estero, sarà pienamente d’accordo con noi. Mi aspetto che ci saranno altri che non saranno d’accordo con l’annessione per principio, ma che saranno d’accordo sul fatto che, data la quasi totale mancanza di speranza di poter fare affidamento su una svolta negoziale, difficilmente questa potrà cambiare lo status quo.
Mi aspetto anche che l’annessione, se dovesse avvenire, avrà un prezzo – a dispetto delle più convincenti argomentazioni nostre e di Israele.
Il prezzo sarà sostenuto dagli israeliani i cui vicini, a lungo mal governati in Cisgiordania dall’Autorità palestinese o crudelmente soggiogati dai terroristi di Hamas a Gaza, reagiranno in modo imprevedibile a ciò che essi e la maggior parte del mondo vedranno come un peggioramento delle probabilità di poter diventare uno Stato sovrano. Gli organismi di sicurezza israeliani si stanno già preparando a ciò che potrebbe accadere da entrambe le parti della Linea Verde – come stanno facendo i diplomatici israeliani nelle capitali straniere e negli organismi internazionali.
Il prezzo sarà pagato nella prospettiva delle relazioni di Israele con gli Stati arabi: l’Egitto e la Giordania, con cui ha vissuto in pace per decenni, e la dozzina o più di altri Paesi con i quali ha cercato di stabilire e mantenere relazioni tranquille e reciprocamente vantaggiose. Di fronte alle comuni minacce dell’estremismo e dell’aggressione iraniana, è probabile che la cooperazione discreta in materia di sicurezza continui – ma l’auspicata svolta verso una cooperazione aperta e relazioni complete, un obiettivo che l’Ajc ha perseguito con un certo successo in tutta la regione per un quarto di secolo, sarà messa a repentaglio.
Il prezzo sarà naturalmente pagato dai palestinesi stessi, che vedranno le loro opportunità e i loro movimenti perennemente limitati, relegati ad essere cittadini di nessuna terra.
Il prezzo sarà pagato dall’erosione della credibilità delle antiche denunce di Israele riguardo all’unilateralismo palestinese in violazione delle promesse degli Accordi di Oslo, e da un aumento del cinismo da più parti – anche all’interno della nostra comunità – in merito alla serietà dell’impegno di Israele per la pace.
Non spetta agli amici e appassionati sostenitori di Israele, nel conforto delle nostre case a migliaia di chilometri di distanza, dire al governo israeliano democraticamente eletto cosa fare. Non abbandoneremo mai la visione sionista di uno Stato ebraico e democratico nella terra natale del nostro popolo, e non abbandoneremo mai i nostri fratelli. Saremo sempre i loro sostenitori e parteciperemo alla gioia dei loro successi. E condivideremo sempre le nostre preoccupazioni quando vedremo pericoli sul nostro cammino.
(*) Jason Isaacson è Chief Policy and Political Affairs Officer dell’American Jewish Committee
(**) L’articolo è stato pubblicato in lingua originale dal Times of Israel
Aggiornato il 02 luglio 2020 alle ore 10:36