Odiare l’odio?

Se dovessi indicare un accadimento del nostro tempo capace di simboleggiarne in modo paradigmatico la temperie culturale, farei ricorso senza molte esitazioni alla pubblicazione del recentissimo libro di Walter Veltroni, dal titolo “Odiare l’odio”. Probabilmente questo titolo gli è stato suggerito – come di solito accade – dai dirigenti della casa editrice, i quali erano ovviamente ben lungi dal decodificarlo nel senso che ora esporrò.

Se la finalità – quella di arginare il sentimento dell’odio, socialmente sempre più diffuso – è encomiabile, sbagliatissima è la via prescelta. Infatti, odiare l’odio, per un verso, è una contraddizione di carattere logico, mentre, per altro verso, è una impossibilità esistenziale.

È una contraddizione di carattere logico, perché nel momento stesso in cui si odiasse l’odio, bisognerebbe, per fedeltà all’imperativo, odiare anche il proprio odio per l’odio, il che non solo annullerebbe l’effetto dell’odio, ma darebbe il via ad una catena di odi che si propagherebbero senza fine. E da questo punto di vista, si resterebbe vittime del celebre paradosso logico – proposto da Epimenide di Creta – detto “del mentitore”: tutti i cretesi mentono; io sono cretese; allora, mento o dico la verità?

Se dico la verità, allora è vero che tutti i cretesi mentono, ma, siccome io stesso sono cretese, allora anche io mentisco; ma, se mentisco, non è vero che tutti i cretesi mentono, e allora io dico la verità.

Insomma, non se ne esce da nessun parte, se non inserendo nel sistema delle proposizioni menzionate, un elemento esterno del tipo “tutti i cretesi mentono, tranne me”.

Allo stesso modo, se odio l’odio, debbo odiare anche il mio odio per l’odio, ma se questo accade, il mio odio per l’odio sarà neutralizzato e io non potrò più odiarlo. Odiare l’odio rappresenta perciò una forma di indecidibilità logica – perché se odio, non potrò più non odiare e se non odio, dovrò odiare paralizzante e per questo studiata e teorizzata da Kurt Gödel, autentico genio della logica del Novecento. In secondo luogo, odiare l’odio è una impossibilità esistenziale, perché è semplicemente ridicolo, per evitare un omicidio – massima espressione di odio – invitare qualcuno ad ammazzare il possibile autore prima che costui consumi il delitto – dando mostra di odiarlo meglio e prima della consumazione.

Perché tutto questo lungo discorso?

Per dire semplicemente che se oggi l’odio sembra socialmente imperversare è probabilmente anche perché si hanno idee molto confuse su cosa esso davvero sia e su quali siano i rimedi per arginarlo: e il titolo del libro di Veltroni lo dimostra in modo emblematico.

In proposito, credo si debbano prendere le mosse da un celebre ma dimenticato verso di Terenzio, secondo il quale homo sum, nihil humani alienum a me puto, che significa che “sono un uomo e credo che nulla di ciò che è umano mi sia estraneo”.

Nulla. E dunque anche l’odio. Nessuno di noi, assolutamente nessuno, può considerarsi esente anche da questo sentimento oggi tanto deprecato ma tanto diffuso. La cosa davvero significativa è che una forma di odio sembra allignare oggi (come ieri) in modo non troppo velato anche nell’animo dei parenti delle vittime di gravi reati, cioè di coloro che hanno sperimentato sulla propria pelle gli effetti dell’odio.

Si pensi al terribile episodio accaduto dodici anni fa presso lo stabilimento torinese della ThyssenKrupp e che costò la vita a sette operai. La condanna a cinque anni di reclusione per omicidio colposo, divenuta esecutiva, come ha detto il Procuratore generale di Torino, condurrà due manager in carcere fra pochi giorni. Tuttavia, la madre di una delle vittime afferma di essere molto arrabbiata a causa della mitezza della condanna e pretende che il carcere sia proprio carcere e non semplici arresti domiciliari.

Analogamente, non è raro il caso in cui genitori o congiunti di vittime di reati pretendano addirittura di sindacare l’esatta entità della pena inflitta al colpevole – nove anni invece di undici, per esempio – lamentando che in tal modo il loro caro “è stato ucciso una seconda volta” (espressione ormai inflazionata).

Ora, pur esercitando la massima comprensione possibile per il dolore inflitto ai parenti da un reato grave come l’omicidio, resta la sgradevole impressione che nell’animo di costoro alberghi il germe di un sentimento molto simile a quell’odio che condusse all’efferato delitto (che sia forse questa, teologicamente, l’impronta del peccato originale?).

In altre parole, se si intende condurre una vera campagna morale e sociale contro il diffondersi dell’odio, occorre anche stigmatizzare la carica di odio che alligna nel cuore di chi, essendone stato vittima, tende a ripagare con la stessa moneta il male subito: non ci potrebbe essere errore più esiziale, come ho cercato di dimostrare commentando il titolo sbagliato del libro di Veltroni, perché odio chiama odio. Certo, oggi questo discorso rischia di essere frainteso, scambiato per un generico buonismo verso i colpevoli. Ma non è così.

Qui intendo non solo mettere in guardia dal pericolo che il diritto penale possa diventare – come ha notato Filippo Sgubbi – un diritto calibrato sulle aspettative delle vittime (e non sulla responsabilità dei colpevoli), ma soprattutto evidenziare come nessuna purificazione sociale dall’odio sarà mai possibile, se non a partire da chi sappia contenere il proprio desiderio, a volte ossessivo, di vendetta (umanamente comprensibile, ma carico di odio) nel perimetro della giustizia (umanamente dura da accettare, ma priva di odio per definizione); da chi si collochi insomma nella prospettiva della pietas per l’intero genere umano, nessuno escluso (neppure i colpevoli).

Per questo, probabilmente, Joseph Ratzinger ha scritto: “Nessuno ha il diritto di giudicare gli altri, ma ciascuno ha il dovere di migliorare se stesso”.

Aggiornato il 16 giugno 2020 alle ore 10:59