
“Egregi signori direttori, la presente per segnalare con rammarico e indignazione come il 20 e 27 maggio scorso in occasione della ricorrenza della strage di Capaci del 23 maggio 1992, durante il programma di La7 Atlantide, per il secondo anno di seguito, sia stato riproposto il teorema di una “trattativa” tra Stato e mafia, oggetto di delicati processi, dei quali uno ancora pendente in grado di appello. Ciò si è fatto anche attraverso interventi ed interviste di giornalisti, presunti protagonisti dei fatti e magistrati che hanno diretto le indagini, senza alcun contraddittorio e senza neanche citare la esistenza di prove contrarie, di sentenze passate in giudicato o ancora non irrevocabili, che smentiscono tale teorema”. È questo lo sconsolato incipit di una lettera che Basilio Milio, figlio dell’indimenticato ed indimenticabile, Piero, avvocato difensore del generale Mario Mori, unitamente all’avvocato Cesare Placanica, difensore del generale Antonio Subranni, e del legale del colonnello Giuseppe De Donno, Francesco Antonio Romito, hanno spedito ai vertici de La7.
Nonché a quelli di Rai uno, visto che “la cosa si è ripetuta il 1° giugno anche con la tivù pubblica, su Rai 1, nel programma Cose nostre dedicata alla ricerca del latitante Matteo Messina Denaro, con la presenza di un magistrato – pubblico ministero in tali processi – il quale ha parlato di un tema estraneo all’oggetto della trasmissione – l’uccisione di Paolo Borsellino – ribadendo le proprie unilaterali convinzioni, anche qui senza alcun contraddittorio né citando prove contrarie, né sentenze passate in giudicato e non, che hanno accertato il contrario e che giornalisti professionisti dovrebbero ben conoscere”.
Che dire di più? Spesso nel giornalismo come nelle indagini della magistratura i protagonisti “di moda” da un trentennio a questa parte vanno a braccetto. Purtroppo però la “moda” prevalente è quella che dà ragione sempre e comunque alle tesi della pubblica accusa. Anche contro ogni evidenza. Così alcuni giornalisti hanno costruito la propria fortuna e ottenuto in esclusiva già dagli anni del terrorismo brigatista i documenti delle procure. “Io sponsorizzo le tue inchieste e tu mi passi le carte”. La prassi, ormai quasi burocratizzata, continua ancora oggi. E sempre più spesso nel primo grado di giudizio non si trovano magistrati che osano mettersi contro il pensiero unico. Il processo sulla cosiddetta trattativa stato mafia è un fulgido esempio di questa maniera di procedere.
Le tesi dell’accusa e i servizi di repertorio televisivi che si ripetono ad ogni luttuosa ricorrenza delle stragi di mafia non solo vanno a braccetto ma danno per scontato che la verità storica dei fatti coincida con le dichiarazioni di testimoni peraltro molto screditati come il noto figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Per ora ci sta una condanna in primo grado che rappresenta il ringraziamento della giustizia che pronuncia sentenze in nome del popolo italiano a quel nucleo pionieristico dei carabinieri del Ros – tutti allievi della scuola di Carlo Alberto Dalla Chiesa – che invece, loro sì, con le rispettive indagini nel 1993 misero le manette al capo dei capi della mafia stragista, Totò Riina, di recente morto in carcere, determinando la svolta più importante nella lotta a Cosa nostra in Italia e anche negli Stati Uniti.
Un processo così delicato e dai contorni così vaghi meriterebbe una trattazione giornalistica meno scontata. Appunto “non di repertorio”. Invece ogni anno sembra che la tivù celebri l’anniversario delle tesi sociologiche della pubblica accusa come le feste del santo patrono. Inoltre quando sono a processo per fatti così gravi, quanto francamente improbabili, esponenti dei vertici investigativi dei carabinieri che hanno al contrario fatto la lotta alla mafia per davvero per decenni – e non con i libri, i convegni e i trattati sociologici – questi imputati meriterebbero di poter contraddire in trasmissione i pm che sciorinano certezze alla pubblica opinione.
Ma siamo in Italia, paese in cui gran parte della giustizia penale funziona così come abbiamo appreso dalle chat captate dal trojan impiantato nel telefonino di un noto pm che fu il capo del sindacato degli stessi magistrati e il deus ex machina delle nomine decise a suo tempo dal Csm. Di cui faceva parte. Per questo Milio, Placanica e Romito fanno bene a lamentarsi di questa prassi che porterebbe a richiedere la separazione delle carriere dei pm da quella dei cronisti di un certo tipo. Oltre che dai magistrati giudicanti. Giornalisti che peraltro si buttano da una parte – quella della accusa – perché evidentemente piace loro “vincere facile”. Ed è verissimo e giusto notare – da parte degli avvocati di investigatori di livello oggi quasi inarrivabile, come Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni – che “la oggettiva influenza che sui delicati processi ancora pendenti possono avere tali modalità di fare informazione, ci fa dire, con sconforto e amarezza, di trovarci di fronte ad un giornalismo di parte, che accanto alla legittima libertà di informazione e di critica, risulta, però, lontano dal rispettare la libertà e la personalità altrui – quindi anche quella di chi è imputato – come dall’obbligo di rispettare la verità sostanziale dei fatti, in base ai doveri di lealtà e buona fede”.
Da quelle stesse chat pubblicate con timidezza solo da alcuni quotidiani – non i più grandi e venduti – abbiamo appreso anche della sudditanza psicologica della maggior parte dei cronisti che fanno giudiziaria oggi – e che la facevano anche negli anni passati – verso questi pm che vanno per la maggiore. Chissà se non sarà l’Europa a imporci quelle riforme, anche nella giustizia penale, che potranno togliere il nostro paese dalle sabbie mobili del giustizialismo manettaro militante. E dalle indagini a tesi e dai teoremi giudiziari. Fosse veramente così almeno per una cosa la frase fatta e molto idiota – secondo cui la pandemia del Covid-19 sarebbe “un’opportunità” per una vita nuova – almeno per una volta potrebbe inverarsi.
Aggiornato il 10 giugno 2020 alle ore 11:39