Quel che resta dei Cinque Stelle

L’istantanea del Movimento Cinque Stelle di questa stagione della politica è una foto confusa, ambigua, distonica. Visto in superficie, il Movimento è un’armata allo sbando. La catena di comando, con l’avvento del “burocrate” Vito Crimi al ruolo di capo politico, è spezzata. Le truppe parlamentari grilline obbediscono ai comandi del premier Giuseppe Conte per il terrore che il Governo rosso-giallo possa crollare sotto il peso delle sue contraddizioni e loro essere rispedite a casa con biglietto di sola andata. I pentastellati di superficie somigliano a un boxeur che continua a prendere pugni senza reagire. Un pugile, però, a cui non importa più l’esito finale del match ma soltanto la possibilità di arrivare ancora in piedi all’ultimo gong. Il prossimo jab che i grillini si preparano a incassare è il ricorso all’indebitamento con il Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Gli alleati del Partito Democratico, supportati dai renziani, stanno esercitando una pressione fortissima su Conte perché accetti il prestito nonostante i rischi di una ricaduta negativa che tale scelta potrà avere sull’autonomia decisionale dell’Italia e sul merito di credito del nostro debito sovrano presso i mercati finanziari. Per i grillini il “no Mes” è un totem del loro armamentario ideologico. Cambiare rotta anche su questo punto, un tempo non negoziabile, fornirebbe la prova definitiva della rinuncia alla propria identità in cambio della sopravvivenza al potere della sua classe dirigente.

Tuttavia, questa è solo una parte dell’immagine che il Movimento proietta all’esterno. C’è n’è un’altra, più offuscata, che ritrae tutto ciò che si muove sotto la superficie del grillismo. Si tratta di correnti sottomarine che scuotono il fondale del Movimento, dove incrociano pesci che indugiano a emergere. Il più insidioso di questi è Alessandro Di Battista. Non sono pochi i pentastellati che reclamano da tempo il suo ritorno. Ciò che sconcerta del “descamisado”, che per qualche momento nella vita si è illuso di essere un Ernesto “Che” Guevara redivivo, è l’indecifrabilità della volontà. Il “Dibba” tornerebbe per fare cosa? Non per far cadere il Conte bis perché sarebbe un suicidio. Neppure per rafforzare il processo di confluenza del grillismo nel corpaccione della sinistra egemonizzata dal Pd. Men che meno per farsi interprete di un “contrordine compagni!” in favore della Lega. Allora cosa?

Per Di Battista si profilerebbe la missione di riequilibrare i rapporti di forza con gli alleati “dem”. Da semplice militante nessuno lo prende in considerazione, ma se, a furor di piattaforma digitale “Rousseau”, fosse eletto capo politico del Movimento in luogo del diafano Crimi, Di Battista darebbe il meglio di sé recitando il copione del rompiscatole che sta con un piede nel Governo e con l’altro fuori. Praticamente, strapperebbe la parte in commedia a Matteo Renzi. E il dissidio con Luigi Di Maio? Tutta scena. Il ministro degli Esteri non aspetta altro che si ricomponga la coppia al comando per arginare lo strapotere di Conte. I due riproporrebbero la manfrina del poliziotto buono e quello cattivo per costringere gli alleati a riconoscere nel vertice politico dei Cinque Stelle l’unico interlocutore, portatore di un effettivo peso contrattuale, nelle dinamiche dell’azione di governo.

Attualmente decide tutto Conte, che neanche si preoccupa più di consultare il partito che lo ha espresso; domani, con Di Battista leader politico del Movimento sarebbe oggettivamente un’altra musica. Lo statista per caso Giuseppe Conte, a cui l’emergenza da coronavirus ha dato alla testa, sarebbe ricacciato nell’angusto ruolo notarile delle scelte prese da altri. Ruolo al quale un arrembante Di Maio aveva pensato di relegarlo già ai tempi della prima esperienza di governo con la Lega di Matteo Salvini. Se qualcuno volesse cercare d’indovinare la collocazione ideologica del Dibba sprecherebbe tempo. Lui non è di destra e non è di sinistra. Il brodo di coltura in cui possa liberare le sue potenzialità è il caos. Più la situazione si mostra confusa, maggiore è l’efficacia della sua vis polemica. Di Battista riuscirebbe benissimo nella schizofrenica modalità di essere al Governo con “Italia Viva” e, nello stesso momento, dare impunemente del farabutto a Matteo Renzi, in una sorta di sdoppiamento della personalità che, a ben vedere, è il modus agendi di Beppe Grillo e dei suoi adepti in politica.

Il ritorno del mancato eroe dei due mondi consentirebbe il cambiamento dello schema di gioco. Per questa ragione si fanno più pressanti le richieste di convocazione degli Stati generali Cinque Stelle per l’elezione del nuovo capo politico. Il quadro delle correnti attive all’interno del Movimento ne uscirebbe più nitido: un’ala destra stabilmente presidiata da Luigi Di Maio, una ultra sinistra di testimonianza affidata alla figura mediocre di Roberto Fico, una ridotta di pretoriani di Giuseppe Conte schierata a ultima difesa del premier e una componente movimentista, capitanata da Di Battista, pronta a stupire scartando dal percorso tracciato. Un tale assetto metterebbe in seria difficoltà il padre-padrone Beppe Grillo che lo scorso anno, dopo la rottura dell’intesa con la Lega, aveva imposto una exit-strategy che portasse il Cinque Stelle dritto alla confluenza nel Partito Democratico.

I rumors di palazzo confermano che la resa dei conti in casa Cinque Stelle sarebbe inevitabile dopo la tornata delle elezioni regionali che ne segneranno l’ennesimo crollo elettorale. Sull’onda della batosta prossima ventura per i pentastellati sarà conseguenziale invocare l’uomo della Provvidenza da portare sugli scudi in vista della palingenesi. Ora, le ipotesi sono ipotesi: tutte legittime, nessuna detentrice di verità. Tuttavia, una cartina al tornasole per verificare l’attendibilità dello scenario delineato esiste. Basterà osservare il comportamento di Luigi Di Maio in relazione alle candidature a capo politico. Se nella rosa degli aspiranti dovesse mancare il suo nome ma esserci quello di Alessandro Di Battista, vorrebbe dire che l’accordo con la divisione dei ruoli è stato trovato a spese del premier Giuseppe Conte. E di Beppe Grillo. Il tutto per centrare il solo vero bersaglio che sta a cuore a tutta la classe dirigente grillina: tenere in piedi la legislatura fino alla scadenza naturale del 2023, anche a dispetto della volontà degli italiani.

Aggiornato il 08 giugno 2020 alle ore 09:38