Nelle Metamorfosi, Ovidio racconta che Astrea, dea greca della giustizia, “lasciò la terra madida di sangue” e si rifugiò tra le stelle perché offesa dalle malefatte dell’uomo.
Se Astrea fosse di nuovo in mezzo a noi e seguisse le vicende italiane che in queste settimane oscurano il mondo giudiziario, è probabile che ripeterebbe la scelta di lasciare la terra. Forse le sembrerebbe di trovarsi di fronte a comportamenti politicamente eversivi, tenuti, per di più, da chi dovrebbe perseguire la giustizia con rettitudine d’animo e d’intelletto. Si potrebbe convincere, insomma, di essere davanti a fatti capaci di modificare il democratico scorrimento delle vicende della nazione. E dunque inaccettabili poiché contrari alle regole fondamentali della democrazia e del “buon governo”.
Cosa si potrebbe fare, allora, per dissuaderla dal proposito di abbandonare nuovamente la terra? Vi è soltanto una prospettiva che la potrebbe convincere a rimanere: la determinazione del Parlamento a colmare i molti buchi neri che costellano il mondo della giustizia e che le vicende attuali, in realtà, si limitano ad allargare, rendendoli ancor più evidenti.
Quali buchi? Se si analizzano con onestà intellettuale i fatti accaduti negli ultimi trent’anni si deve riconoscere che molti di essi derivano dalle lacerazioni subite dalle principali garanzie costituzionali. Le hanno patite non solo quelle poste a tutela delle indagini e dell’innocenza dell’indagato, ma anche quelle dettate a protezione dei poteri diversi dal giudiziario. Chiunque abbia buona memoria deve riconoscere che in più occasioni l’azione di una parte della magistratura requirente ha finito per invadere le competenze di altre istituzioni, per condizionare il loro funzionamento, influenzare la vita di alcuni governi e parlamenti, gli esiti di alcune elezioni nazionali. Magari sono state, tutte queste, conseguenze involontarie, non perseguite scientemente, ma sul piano storico è difficile sostenere che le cose siano andate diversamente.
In questo modo la magistratura nel suo complesso – anche se per comportamenti non riferibili a tutti i suoi componenti, è ovvio – ha finito per mostrarsi agli occhi di molti come una “casta chiusa e intangibile”, “separata e irresponsabile”, un “mandarinato”, per questo “sottratto al controllo dell’organo di rappresentanza popolare”, come in Assemblea costituente alcuni suoi componenti definirono il nascente corpo giudiziario (lo definirono in questi termini, rispettivamente, Luigi Preti, Francesco Dominedò, Giovanni Persico e Giuseppe Cappi).
Il Parlamento non può più rimanere inerte. Deve intervenire in autonomia per ricucire lo strappo tra cittadini e magistratura, riportare i poteri di questa entro confini definiti e possibilmente invalicabili, ridisegnare la collocazione funzionale degli uffici della pubblica accusa e riscrivere le regole dell’esercizio dell’azione penale.
Per individuare soluzioni convenienti può essere utile far memoria del dibattito che si svolse in Assemblea costituente. Lì si fronteggiarono due giganti del sapere giuridico, Piero Calamandrei e Giovanni Leone, poi eletto VI Presidente della Repubblica. Alla fine prevalsero le posizioni di Calamandrei, in qualche misura anticipate dalla cosiddetta Legge Togliatti del 1946, legge che porta il nome dell’allora ministro degli Interni e segretario del Partito comunista.
Per chi, come me, crede fermamente nella democrazia sostanziale, ossia nella derivazione dal popolo, diretta o indiretta, di tutti i poteri dello Stato e di tutte le sue istituzioni, e diffida degli organi autocefali, non può che auspicare l’abbandono della visione togliattiana del potere giudiziario, unico e unito sui due versanti nei quali esso si dispiega, il giudizio e l’accusa, e controllabile solo in maniera opaca, dall’esterno del circuito degli organi democratici. E auspicare, come propose Giovanni Leone, la riconduzione dell’ufficio del pubblico ministero all’esecutivo e la determinazione delle condizioni per l’esercizio dell’azione penale al potere legislativo. Collegamenti, questi, da bilanciare con alcuni contrappesi, ad iniziare dalla inamovibilità, a garanzia del funzionario della pubblica accusa e del suo operato.
Un sistema di questo genere, del resto, è in vigore in numerosi Stati a democrazia avanzata: dagli Stati Uniti d’America al Canada, dall’Australia all’Inghilterra, dalla Germania alla Svizzera, alla Francia.
In uno scenario simile, la revisione del Consiglio superiore della magistratura sarebbe relativamente semplice da architettare, come semplice sarebbe quella dei procedimenti concorsuali di accesso alla magistratura e all’ufficio della pubblica accusa. La proposta di legge costituzionale d’iniziativa popolare avanzata dalle Camere penali dell’avvocatura e ripresa da Forza Italia, prevedendo lo sdoppiamento dell’organo di autogoverno in Consiglio della magistratura giudicante e Consiglio della magistratura requirente, e ipotizzando un doppio canale di accesso alle funzioni, potrebbe costituire una valida piattaforma di discussione per arrivare ad una sintesi costruttiva di riforma. Mentre appare del tutto inadeguata l’arruffata proposta avanzata dal Governo, poco più di un pannicello caldo.
Sarebbe bello se Astrea, di fronte a simili riforme, decidesse di continuare ad abitare sulla terra. Sarebbe come tornare all’età dell’oro, la più feconda di tutti i tempi che le nazioni abbiano mai vissuto.
(*) agiovannini.it
Aggiornato il 09 luglio 2020 alle ore 15:30