
Per prima cosa i fatti. Nel corso della trasmissione di Massimo Giletti di domenica scorsa, Nino Di Matteo per telefono racconta che il ministro Alfonso Bonafede nel giugno del 2018 gli aveva offerto di collaborare con lui, o quale capo del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), da cui dipendono le carceri, o quale direttore degli Affari Penali, posto a suo tempo occupato da Giovanni Falcone; che lui aveva chiesto e ottenuto 48 ore di tempo per riflettere e scegliere fra le due possibilità; che il giorno dopo aveva raggiunto Bonafede, comunicandogli di aver scelto la direzione del Dap; che nelle ore intercorrenti fra i due contatti, intercettazioni ambientali a cura dello stesso Dap avevano svelato che diversi mafiosi già in regime di 41 bis vedevano la sua nomina al Dap come una vera rovina; che però Bonafede, inaspettatamente, gli aveva risposto che preferiva affidargli la direzione degli Affari Penali; che perciò lui, con sorpresa e disappunto, visto che il ministro gli aveva precluso il Dap, aveva preferito rinunciare a tutto.
Bonafede, intervenuto pure per telefono, dice che quelle intercettazioni non avevano nulla a che vedere con la sua scelta circa Di Matteo e che la preferenza per gli Affari Penali era dovuta al semplice fatto che lo riteneva più adatto a tale ruolo, in prima linea contro la mafia, più e meglio del Dap. Si tratta di una matassa così aggrovigliata, dal punto di vista politico e istituzionale, da sollecitare almeno tre domande. Prima domanda. Se è vero, come afferma Di Matteo, che nel lasso di tempo intercorrente fa i due colloqui con Bonafede – cioè circa 24 ore – intercettazioni fatte in carcere erano pervenute a lui medesimo presso la Direzione nazionale antimafia, rivelando che diversi mafiosi al 41 bis ne temevano molto la nomina al Dap, come mai può questo essere avvenuto?
Infatti, il 41 bis dovrebbe essere un regime tale da escludere in ogni caso che dall’esterno possano giungere notizie di ogni tipo, ancor più se afferenti – come quella qui in esame – alle nomine ministeriali più delicate, materia riservata, anzi riservatissima. E allora, come la mettiamo? Dobbiamo forse dedurne che il 41 bis, di cui tanto si favoleggia, e che viene posto a base di inchieste di rilevante valore politico, come quella del presunto patto Stato-mafia (che ha visto lo stesso Di Matteo fra i pubblici ministeri procedenti) non funzioni? Che si tratti di un colabrodo camuffato da carcere duro? Che sia altro da ciò che si crede e si dice che sia? E se pure volessimo ammettere che queste intercettazioni – come ha adombrato Bonafede – fossero note da un tempo precedente, la domanda di cui sopra rimane intatta nella sua rilevanza per l’inquietudine che suscita.
In entrambi i casi, il 41 bis apparirebbe non un regime di effettivo contrasto dei mafiosi più pericolosi, come sempre e da tutte le sedi predicato, ma una sorta di presa in giro se – come nella prima delle ipotesi sopra indicate – in poche ore chi vi sia detenuto riesca a sapere cose dette in via confidenziale fra il ministro della Giustizia ed un suo potenziale collaboratore, in relazione alla nomina di questi alla direzione del Dap. Se invece fosse vera la seconda ipotesi – che cioè quelle intercettazioni fossero di data precedente al colloquio tra Bonafede e Di Matteo – allora i detenuti al 41 bis godrebbero addirittura di un potere profetico, conoscendo in anticipo – per dolersene molto – di una sua possibile nomina al Dap, prima ancora che lo stesso Di Matteo lo sapesse da Bonafede. E come avrebbero fatto a sapere ciò che neppure lo stesso Di Matteo sapeva? Chi lo avrebbe detto loro? Inquietudine doppia, tripla, all’ennesima potenza!
Seconda domanda. Come mai né Bonafede né Di Matteo né Giletti si sono posti questa domanda? Come mai ci vuole un giornale come questo per porsela? Come mai nessuno di loro ha provato, neppure di passaggio, l’inquietudine che invece avrebbe dovuto provare? Come mai la questione è passata del tutto inosservata? Non basta, perché ne vengono altri quesiti. Siccome è un fatto che nessuno di costoro abbia minimamente accennato alla domanda sopra formulata, che tipo di sensibilità istituzionale possono essi vantare? Se ne sono accorti o no di questo problema? E se non se ne sono accorti, perché non lo hanno visto o sospettato? E se invece se ne fossero accorti, perché non vi hanno neppure accennato? E perché hanno preferito risolvere questa faccenda di enorme portata pubblica e istituzionale in una contesa di carattere privato – un potenziale capo del Dap esautorato inaspettatamente da chi prima lo aveva illuso e poi scartato – tutta giocandola fra di loro?
Terza domanda. Si è accorto Di Matteo che, lasciando si pensasse – pur senza averlo detto in modo espresso – che i timori dei detenuti al 41 bis abbiano potuto condizionare le scelte di Bonafede – cosa che non risulta per nulla provata o provabile – ha finito con l’offrire proprio a questi signori, pericolosi mafiosi, una involontaria patente di efficienza operativa, di capacità di incidere sulle istituzioni? Il fatto è che le domande qui poste sono le sole domande che interessano gli italiani perché riguardano le istituzioni e il loro corretto funzionamento. Invece, le altre domande – quelle che Bonafede e Di Matteo si scambiavano davanti a Giletti – interessano soltanto loro e non interessano agli italiani perché riguardano in definitiva soltanto beghe personali. Di queste, gli italiani possono benissimo fare a meno. Di quelle no. Aspettano risposta.
Aggiornato il 07 maggio 2020 alle ore 11:24