Il film Prova d’orchestra, che Federico Fellini girò per la Rai nel 1979, è stato ricordato molto poco in occasione del recente centenario (20 gennaio 2020) della nascita del grande regista perché generalmente ritenuto minore. Tuttavia è un film che in questi giorni di pandemia e di nere prospettive per l’economia mondiale, e per quella italiana in particolare, potrebbe apparire persino profetico in un senso non tanto storico-politico, quanto addirittura “metafisico”. La palla di ferro nera che alla fine del film irrompe inattesa e funge da deus ex machina della vicenda sovviene alla mente con una potente carica simbolica.
L’unica scena del film è quella di una cripta sotterranea del ‘200, trasformata dal ‘700 in auditorium. Lì si svolgerà una prova d’orchestra nella Roma di fine anni ‘70. Un vecchio copista descrive ad un invisibile intervistatore televisivo (che ha la voce di Fellini) quel luogo antico dove sono sepolti tre papi e dove sono risuonate fino a pochi anni prima musiche celestiali, ma che ha da poco perduto la sua aura secolare. “Che profumo che c’era! Era tutta un’altra aria! Oggi non è più così!” – ricorda ancora il copista.
L’auditorium prende vita e si riempie improvvisamente di strumenti musicali, sedie e leggii moderni, nonché dei suonatori, uomini e donne contemporanei, prontamente intervistati dalla troupe televisiva. L’enfasi retorica e la vanità abbondano nelle dichiarazioni ad uso televisivo degli orchestrali: “Apollo svegliò i morti cona un flauto”, dice la flautista. “Nei dipinti del Rinascimento, erano gli angeli a suonare il trombone, forse donatogli da Dio stesso” soggiunge con enfasi il trombonista. Compare finalmente il direttore: è biondo, tedesco e sembra impersonare il principio di autorità e lo spirito di disciplina.
Inizia la prova d’orchestra. Essa si rivela subito un vero disastro: alcuni strumenti stridono, altri non sono né intonati né coordinati, altri suonano troppo forte: ognuno sembra suonare solo per se stesso. Il direttore interrompe spesso l’esecuzione, perde la pazienza e rimpiange la disciplina e la “finezza” dei musicisti di un tempo. I musicisti, però ostentano una sovrana indifferenza alle reprimende del direttore: sono distratti, scherzano tra loro, ascoltano radioline e si disperdono nella sala. Alla richiesta del direttore che un clarinettista ripeta un passaggio, questi risponde: “No maestro! Io ho suonato una volta e una seconda: la terza, per accordo sindacale, non si suona!”. Dopo alcuni minuti, proprio quando l’orchestra cominciava a produrre qualche buon risultato, la prova viene improvvisamente interrotta per una inopinata protesta degli orchestrali, che rivendicano diritti, benefici, assicurazioni e tutele. Il direttore è esasperato, ma cedendo alle richieste, sospende per 20 minuti la prova. Durante la pausa i trombettisti discutono di temi sociali e politici, una violinista beve di nascosto una sorsata di whisky, un musicista scrive sul muro “Direttorazzo dirigi stocazzo”, un’altro scrive “la musica al potere, no al potere della musica!”. Le luci all’improvviso si spengono tutte per un black out provocato a fini di sabotaggio da alcuni orchestrali.
La voce di Fellini, durante la stessa pausa, intervista il direttore nel suo camerino: questi esprime rammarico per la “morte della vera musica”, per l’ignoranza del pubblico moderno, per il falso ottimismo delle masse diffuso dai media verso i quali lo stesso direttore si mostra intimidito fino ad autocensurarsi. Egli esprime un rimpianto nostalgico per un passato nel quale la musica era considerata sacra e si sente oltraggiato dalla “obbligata uguaglianza” che deve al suo primo violino, il quale ha “dita da macellaio”. “Il tempo di grandezza è finito, kaputt!”, dice con inflessione tedesca. “Così suoniamo noi insieme, ma uniti solo da un odio comune, come una distrutta famiglia”.
Il direttore, intenzionato comunque a proseguire la prova, dopo la pausa, rientra nell’auditorium trovandolo però in piena rivolta. I ritratti di Mozart e di Beethoven sono stati imbrattati di sterco, le pareti coperte di graffiti e scritte volgari. I musicisti scandiscono slogan aggressivi: “Direttore, direttore, non ti vogliamo più / d’ora in poi / lo fai a testa in giù”, “Direttore sei fottuto / il tempo è scaduto”, “Orchestra / terrore / chi suona è un traditore / a morte il direttore!”. È una evidente rappresentazione metaforica della rivolta del 1968 e di un certo clima “culturale” che è stato a lungo egemone tra gli intellettuali e i giornalisti italiani. Su una parete si può leggere anche “W il giradischi”. A quel punto qualcuno afferma la necessità di un “direttore nuovo” e di “tipo nuovo” e propone un gigantesco metronomo (a forma di bara).
Ma la sua proposta divide i ribelli: una parte dei musicisti rifiuta qualsiasi “strumento di controllo”: “sia la musica stessa a stabilire il suo ritmo”. Nasce una rissa tra le due fazioni di ribelli finché un musicista anziano estrae una pistola e si mette a sparare a casaccio, ma è bloccato da un altro musicista. Nel frattempo gli orchestrali si abbandonano ad una dionisiaca ed edonistica anarchia: suonano i loro strumenti in modo rumoroso e cacofonico, si fuma, si beve, scoppiano risse per motivi futili, si distruggono gli strumenti, ci si denuda, si copula sotto un pianoforte mentre dal soffitto piove una pioggia nera e vischiosa! Si odono schiamazzi a sfondo politico in un clima di follia collettiva: “La musica è sfruttamento!” grida qualcuno. Di tanto in tanto rullano sinistramente tamburi di guerra. L’unica persona che mantiene un suo contegno è l’arpista, che, nel bel mezzo del tumulto, parla stringendo il suo strumento e descrivendo dolcemente il rapporto simbiotico che ha con esso e con la musica delicata che da esso promana. Improvvisamente, nell’auditorium immerso in quella caotica anarchia, irrompe con fragore distruttivo una enorme palla nera di ferro che fa crollare una intera parete travolgendo mortalmente proprio la dolce arpista avvinghiata al suo strumento. L’avvento della palla era stato preceduto da sinistri rumori di colpi e sconquassi, a cui nessuno aveva voluto far caso.
La terribile palla di ferro ha però un effetto catartico sugli orchestrali che immediatamente riprendono tutti il loro posto ricomponendosi. Nel silenzio più assoluto, rientra in scena il direttore, che fino a quel momento aveva tranquillamente osservato la scena seduto su un bancone, quasi fosse consapevole di cosa stesse per accadere. Riprende silenziosamente il suo posto, aiutato proprio da uno dei musicisti più riottosi diventato ora obbedientissimo e deferente. L’ordine e il principio di autorità è stato restaurato. Tutti sono silenziosi, tutti sono disciplinati e ritornati all’obbedienza. L’orchestra segue ora il direttore, ne riconosce il comando e suona, all’unisono e quasi alla perfezione, il pezzo di chiusura. Ciò nonostante, il direttore inizia a riprenderli sempre più duramente, e anche ingiustificatamente, inveendo in tedesco contro di loro con un fin troppo riconoscibile piglio perentorio e autoritario di sapore nazista. “Signori, da capo” – intima il direttore.
L’enorme palla nera nel film svolge la funzione del deus ex machina che modifica radicalmente la situazione e i comportamenti. In essa non sembra esserci nulla di identificabile storicamente o politicamente. Sarebbe riduttivo vederci solo facili metafore come il pericolo di un incombente autoritarismo. La palla nera sembra invece un’entità metafisica che esiste e incombe da sempre e per sempre. È una potenza inesorabile che proviene dall’esterno e “dall’alto”. È la potenza della necessità e dell’oggettività che incombe sui sogni e sulle vanità degli umani.
È la necessità metafisica, l’Ananke dei greci, contro cui nemmeno gli dei osano combattere: essa appare nella forma dei limiti posti dalla Natura (tra cui la morte) e dalla realtà. Chi viola o nega questi limiti per tracotanza ed eccesso di orgoglio (hybris) si espone prima o poi alle rappresaglie di Nemesi, la dea greca della giustizia che punisce soprattutto l’hybris individuale e collettiva e spezza i sogni e i deliri dionisiaci e narcisisti dei mortali. Gli uomini moderni in particolare dimenticano il principio di realtà, credendo di poterlo trascurare in nome del principio del piacere e sostituendolo con i propri desideri, rifiutando di farsi orientare dalle (sia pur provvisorie) certezze scientifiche (usando il pretesto che “non sono assolute e definitive”); credono di poter annullare il principio di autorità e di competenza (come chi dica per esempio che “uno vale uno”). Essi spesso non riconoscono alcun limite, vincolo e tradizione. Così l’uomo contemporaneo pretende di divenire, come un Dio, legislatore del bene e del male, sovrano di se stesso e quindi superiorem non recognoscens. Egli è protagonista di una vera hybris culturale e metafisica. Egli nega il Limite e la palla nera della necessità prima o poi torna a ricordargli che invece il Limite c’è ed è ineluttabile.
La nera palla di ferro del film di Fellini sta lì, insomma, a ricordare che i baccanali dionisiaci, i carnevali, le messe in scena, le menzogne, le seduzioni, le cieche speranze che fanno credere di poter vivere trascurando le leggi oggettive della realtà (quelle della natura, ma anche quelle dell’economia, della logica e della verità fattuale) sono destinati prima o poi a finire. Prima o poi viene il momento della Verità. In quel momento rischiano di restare travolti soprattutto gli innocenti e gli ingenui (come l’arpista del film), mentre restano impuniti i propagatori più attivi della hybris nichilista. La palla nera della oggettività e della necessità è un simbolo che forse Fellini sperava avrebbe fermato la corsa verso il nulla degli intellettuali europei ed italiani, richiamandoli alle loro responsabilità. Non è stato così. Signori, da capo!” – sono le ultime parole del direttore d’orchestra. Si ricomincia da capo e, forse, da zero.
Aggiornato il 13 marzo 2020 alle ore 13:29