Quello che non convince del discorso di Giuseppe Conte

Il premier Giuseppe Conte si è rivolto alla nazione per chiedere il sacrificio di tutti nella lotta al Coronavirus. L’appello ha accompagnato la presentazione di un nuovo Decreto presidenziale che estende a tutto il Paese severe misure di prevenzione e di contenimento del contagio. Il tono solenne ha rispettato la forma che la gravità del momento richiedeva. Ma la sostanza del discorso non ha convinto.

Il premier parla agli italiani con il tono del padre spirituale che raccomanda il sacrificio in vista di una resurrezione che diviene, nella sua professione di fede, una palingenesi della condizione umana. Belle parole, che però non hanno impressionato. Avremmo preferito ricevere una prova di credibilità dopo i tanti errori accumulati nel giro di poche settimane dall’azione contraddittoria del Governo. Ma tale prova non è arrivata. Qualcuno, sbagliando citazione, ha maldestramente tentato di accostare il discorso di Conte a quello pronunciato da Winston Churchill il 23 agosto 1940 alla Camera dei Comuni, nell’imminenza dell’aggressione nazista all’Inghilterra e notoriamente conosciuto come il discorso della “loro ora più bella”. In realtà, in un eccesso di enfasi poco è mancato che Conte, parafrasando Churchill, concludesse dicendo: “Stringiamoci dunque al nostro dovere e comportiamoci in modo che se l’Italia e la Repubblica dureranno per un migliaio d’anni gli uomini diranno ancora: questa fu la loro ora più bella”.

Grazie a Dio a tutto c’è un limite, anche al cattivo gusto. Ma Conte non ha convinto non per ciò che ha detto ma per quello che ha omesso. Un discorso davvero serio avrebbe dovuto comprendere un’autocritica sugli errori compiuti; avrebbe dovuto dare conto dell’iniziale stupida concorrenza con le Regioni del Nord perché governate da esponenti leghisti. Avrebbe dovuto riconoscere che il blando approccio al contagio fosse stato condizionato da fattori ideologici, ampiamente travolti dalla realtà. Conte avrebbe dovuto dissipare i dubbi sul perché, a virus galoppante che colpisce trasversalmente l’intera popolazione, non si abbia notizia neppure di uno starnuto dalla pur numerosa comunità cinese presente in Italia. Avrebbe dovuto provare a spiegare la debolezza con la quale il Governo si è rivolto alle autorità di Bruxelles per chiedere un coinvolgimento concreto dell’Unione nell’emergenza. Avrebbe dovuto ammettere, Conte, che la preoccupazione di ieri tra i membri del Governo si stia trasformando in panico nel momento in cui è prevista una diffusione estesa del contagio al Mezzogiorno. Cadere al Sud per Giuseppe Conte e compagni segnerebbe la fine della presenza in politica. Se è così, chi assicura gli italiani che l’ultimo giro di vite imposto non sia motivato da inopportune ansie personali piuttosto che da oggettive necessità sanitarie? Il premier Conte ci pone davanti a un arduo dilemma. Per un giudizio equilibrato sul concedergli o meno fiducia non c’è da fare i disfattisti, ma bisogna valutarne con pragmatismo la credibilità. In condizioni ordinarie la risposta sarebbe stata inappellabilmente negativa.

Tuttavia, il fatto che si sia piombati in un dramma collettivo devastante può giustificare la sospensione del giudizio? L’interesse dell’Italia deve rimanere la stella polare a cui guardare per procedere sulla rotta giusta. E non vi è dubbio che l’alternativa alla fiducia al buio chiesta dal premier sia di invocare una crisi di Governo nel bel mezzo di un’emergenza sanitaria. È comprensibile che possa essere ritenuto un comportamento quanto meno irresponsabile. Ma se si accerta per fatti concludenti la responsabilità del comandante in capo nell’aver provocato la disfatta del suo esercito, si deve continuare ad essere “usi ad obbedir tacendo e tacendo morir” oppure l’inettitudine dell’individuo legittima ogni azione tesa a chiederne o provocarne la rimozione dal comando?

Nei codici navali di guerra l’ammutinamento è tra i reati più gravi contemplati. Tuttavia, vi sono circostanze eccezionali che riconoscono una specifica esimente di punibilità a chi abbia agito a fronte dell’incapacità conclamata del comandante a svolgere le funzioni assegnategli e, soprattutto, se abbia messo inutilmente in pericolo l’incolumità dell’equipaggio. L’ex parlamentare Daniele Capezzone, per suffragare la tesi della destituzione del premier, cita spesso l’esempio del post-disfatta di Caporetto, nelle Prima guerra mondiale. Responsabile della catastrofe sul campo di battaglia era stato il Generale Luigi Cadorna, Comandante supremo del Regio Esercito. Il Governo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, di fresco insediamento, il 9 novembre 1917 prese la delicata decisione di destituire Cadorna per sostituirlo al Comando supremo con il generale Armando Diaz. La decisione, coraggiosa, diede gli effetti desiderati. Per stare ai precedenti, si potrebbe citare quello che portò Winston Churchill a sostituire uno screditato Arthur Neville Chamberlain alla guida del Governo britannico in piena Seconda guerra mondiale. E per rimanere in casa nostra, sebbene con qualche forzatura interpretativa, si potrebbe evocare il caso della destituzione di Benito Mussolini da capo del Fascismo, decisa dal Gran Consiglio il 25 luglio 1943, che fornì l’arma politica al re Vittorio Emanuele III per esautorare il Duce da tutti gli incarichi di Governo e sostituirlo con il maresciallo d’Italia, generale Pietro Badoglio.

Quindi, a chiedere a gran voce l’allontanamento di un presidente del Consiglio che ha manifestato un’incapacità assoluta a gestire una crisi dannosa per il Paese, non s’incorre nel reato di lesa maestà né può classificarsi come attività antipatriottica. Ora, il Paese sta vivendo una fase drammatica che determina lo stato d’eccezione. Per uscirne sarebbe necessaria la chiamata in servizio, ai massimi livelli esecutivi, di uomini di grande spessore politico e morale. Già, perché soltanto personaggi di altissimo profilo potrebbero chiedere un atto di responsabilità alle opposizioni parlamentari il cui interesse specifico sarebbe quello di lasciare andare in malora il Governo per poi raccogliere nei seggi i frutti dello scontento popolare. Si può supporre che Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e anche la riottosa Giorgia Meloni decidano di sacrificare gli interessi di bottega per anteporre il bene della Nazione a ogni altro calcolo di convenienza. Ma potrebbero farlo solo a condizione che sia un soggetto terzo, in totale discontinuità con l’operato dell’odierno Esecutivo, a prendere in mano il destino del Paese. E quel personaggio non potrà mai essere Giuseppe Conte che, per la terza volta consecutiva, cambierebbe d’abito politico pur di restare dov’è attualmente. E ciò a prescindere dall’acredine personale che è sorta con l’ex-alleato leghista.

Su questa premessa è quasi scontato concludere che né Conte né i partiti che lo sostengono siano disposti a cedere lo scettro del comando. La pretesa sua e dei suoi dante causa è surreale: si vorrebbe che le opposizioni condividessero le scelte di Governo sul contrasto all’epidemia da Coronavirus, assumendone la responsabilità davanti agli elettori, ma restando al proprio posto di minoranza, senza poter incidere nel merito dei provvedimenti adottati dalla maggioranza. Nel linguaggio tecnico della politica tale sorprendente pretesa è definita la sindrome del “Compa’, me dai na vacca?”. Il mantra del politicamente corretto è che nelle difficoltà ci si unisce e non ci si divide. Ma a quale prezzo? Siamo spiacenti, non saremmo i buoni della favola ma siamo quelli liberi di pensare che questo Governo debba fare le valigie a andare a casa. Perché se il Conte bis ha una forma, di sicuro non ha la sostanza. Almeno quella giusta.

Aggiornato il 12 marzo 2020 alle ore 10:58