Libia, i presupposti per l’uso della forza

L’ammissibilità del ricorso alla guerra e all’uso della forza armata in taluni contesti sta tornando in questi giorni al centro dei dibattiti di diritto internazionale.

In mancanza di una crisi umanitaria e di una sistematica violazione dei diritti umani non può scattare automaticamente la cosiddetta responsabilità di proteggere uno Stato sovrano da parte della comunità internazionale e intervenire conseguentemente con unità militari a seguito di una specifica determinazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

La possibilità quindi di coinvolgere Nato o Ue o altre coalizioni in Libia con una missione militare al momento è da escludere. L’Unione europea, inoltre, non avendo la disponibilità di una forza militare potrebbe farsi sentire solo in un’ottica di una forte azione diplomatica che però non riesce attualmente ad esprimere per gli stessi motivi per cui non esiste un Esercito europeo: la mancanza di una politica estera comune.

Restano le intese bilaterali. Ciascun Paese, al di là delle decisioni della comunità internazionale, può chiamare in soccorso un altro Paese che lo possa supportare in caso di crisi.

L’Italia negli scorsi anni ha fatto numerosi tentativi di negoziare degli accordi bilaterali nel campo della difesa a livello governativo con i vertici libici, ma non sono mai stati finalizzati per l’impossibilità di ottenere una clausola di garanzia che tutelasse i nostri militari dall’applicazione della pena di morte qualora fossero incorsi in un reato che la prevedesse. Il testo degli accordi prevedeva sostanzialmente addestramento militare, cessione gratuita di materiali non d’armamento e assistenza tecnica per istituire linee di comando efficienti.

I componenti delle missioni che si sono svolte negli ultimi anni sul territorio libico, compresa quella dei medici militari a Misurata, sono in possesso di passaporto diplomatico che garantisce loro un certo grado di immunità giurisdizionale ai sensi delle Convenzioni di Vienna sulle immunità diplomatiche.

Altri Paesi non hanno questi problemi e possono accettare maggiormente il rischio di inviare proprie missioni in tempo di pace e in tempo di guerra senza preoccuparsi delle conseguenze.

Inutile, pertanto, lagnarsi se la Turchia accetta di inviare propri soldati anche in funzione combat: essa ha una capacità di sopportare eventuali perdite che l’Italia come altri Paesi europei con standard culturali impostati sulla pace e la non violenza non hanno.

Anche se gli interessi di avere una Libia pacificata sono sotto gli occhi di tutti, è difficile spiegare ai cittadini perché bisogna rischiare la vita e combattere per un Paese che non è il nostro. Un conto sono le missioni di peacekeeping in cui i soldati italiani sono presenti con successo – sotto cappello internazionale – in tutte le aree più instabili del mondo, un conto è la partecipazione in un conflitto in chiave bilaterale. La Turchia può, l’Italia no, anche perché un coinvolgimento diretto al di fuori di coalizioni internazionali che vada oltre il training e l’assistenza umanitaria lo vieta espressamente la Costituzione.

C’è un altro aspetto inoltre da considerare: la Turchia ha deciso di entrare in campo a fianco del presidente al-Sarraj anche in risposta al recente accordo sottoscritto tra Egitto – da sempre sostenitore del generale Khalifa Haftar – Cipro e Grecia a seguito del vertice del Cairo dello scorso 8 ottobre in cui è stato attivato un meccanismo di cooperazione regionale in materia di energia, sicurezza del Mediterraneo orientale, immigrazione clandestina e contrasto al terrorismo. La Turchia, accusata di condurre illegalmente esplorazioni petrolifere nella Zona esclusiva economica (Zee) di Cipro, ha risposto offrendo la sua collaborazione al governo libico entrando così nel grande gioco delle trattative per lo sfruttamento della vasta area nordafricana.

La contrapposizione tra Haftar e al-Sarraj è da mesi in fase di stallo, anche per i limitati mezzi in campo che non hanno consentito ad alcuna delle parti di prevalere sull’altra.

Senza l’intervento di un attore esterno o delle Nazioni Unite, che ancora non si sono espresse, la situazione in Libia non varierà nel breve periodo; pertanto se nessun Paese europeo – e tantomeno l’Europa nel suo insieme – sino ad ora non è riuscito ad intraprendere un’azione diplomatica decisiva e risolutiva, non ci resta che seguire l’esito degli eventi da osservatori esterni e non da protagonisti.

Aggiornato il 10 gennaio 2020 alle ore 13:04