Le Sardine come populismo tribale

Il fenomeno delle “Sardine” segna non solo la rinascita, dopo un lungo letargo e in forme nuove, del “popolo di sinistra” e del populismo di sinistra, ma segna anche un’accentuazione del carattere tribale del dibattito pubblico in Italia.

Il distacco tra la élite di sinistra ed il suo popolo tradizionale è evidente e ne hanno parlato e scritto diversi analisti, tra cui Luca Ricolfi nel suo libro “Sinistra e Popolo”, in cui quel distacco viene spiegato anche con il “complesso del migliore” che caratterizza l’aristocrazia rossa. Alcuni leader della sinistra negli anni passati avevano creduto di rimediarvi con la futile esortazione volontaristica (e perciò fallimentare) di “tornare nelle periferie”. Chi ha sapientemente organizzato (con mezzi finanziari e tecnici notevoli) il movimento “spontaneo” delle “Sardine” è riuscito a mobilitare quel che resta del “popolo” dei fedeli della sinistra indicando un “nemico pubblico” (Matteo Salvini) ma anche con l’intenzione di competere con il movimentismo dei “5 Stelle” sulla base di un populismo di sinistra.

Cos’è infatti il populismo se non il riferimento diretto al “popolo”, alla folla, come criterio di verità “oggettiva” e di orientamento per scelte politiche? “Vox populi, vox dei”, insomma. Ne discendono le solite illusioni demagogiche: la democrazia diretta, il disarmo dei corpi intermedi (come partiti, sindacati, associazioni) tra il cittadino e lo Stato: la distruzione cioè della democrazia rappresentativa parlamentare (con vincolo di mandato).

Si tratta di ipotesi profondamente illiberali perché favoriscono il cesarismo e la formazione di maggioranze intolleranti e soprattutto l’irruzione incontrollata dell’irrazionale e del tribalismo nello spazio pubblico. Il populismo è infatti intrinsecamente irrazionalista e si può definire anche come la vittoria della “pancia” sulla “testa”, e cioè sul primato della ragione come principio regolatore dei conflitti sociali e politici.

Il populismo segna la prevalenza (di ascendenza romantica) del “sentimento” (spesso teatralizzato), dell’emozione e delle pulsioni sulla civiltà liberale. Cos’è infatti la civiltà liberale se non la somma storica degli sforzi plurimillenari per il dominio e il controllo razionale non solo delle forze ostili della natura esterna, ma anche delle pulsioni umane più aggressive insite nella natura interna dell’uomo?

Il populismo si accompagna invece sempre all’indicazione emotivista di un nemico, dipinto come un reprobo quasi genetico, un demonio, verso il quale si manifesta indignazione morale – e spesso odio – rifiutandosi persino di entrare nel merito delle sue posizioni. Non a caso i movimenti populisti non hanno un programma preciso e razionale, ma si mobilitano emotivamente contro un nemico a cui vengono pregiudizialmente attribuite intenzioni malevole e “antipopolari”. Spesso il nemico è vagamente indicato come “l’establishment”, o “il sistema”, o la “finanza internazionale”, o “le multinazionali”, o “l’ebraismo internazionale”. In esso pullulano perciò le credenze nei complotti e nelle cospirazioni internazionali. Talvolta, più modestamente, il nemico viene indicato in una singola persona. Così fanno le “Sardine”, che modestamente hanno individuato il loro nemico in Salvini e nel suo “sovranismo”. A maggior ragione non hanno bisogno di un programma né di un’ideologia. Il loro populismo è un’emozione ad personam: l’avversione per una persona che invitano tutti ad odiare. E infatti lo rappresentano sempre più spesso appeso ad una corda di impiccato e lo ricoprono di insulti ed improperi in quanto istigatore di odio. La cosa singolare è che istigano all’odio per un “nemico” accusato di istigare all’odio.

A spiegare il relativo successo delle sardine, non c’è solo un risveglio dal letargo del populismo di sinistra contro il sovranismo odiatore e odioso di Salvini. C’è anche la forza generale e forse eterna dell’appello populista. Essa sta nella persistenza anche nella società moderna e individualista di una pulsione tribale. Questa pulsione può essere descritta come il desiderio di tornare dall’impersonalità e oggettività delle regole civili a quelle dei legami personali premoderne vigenti nelle comunità claniche o tribali, secondo l’ideal-tipo familiare. Il familismo amorale - e le regole mafiose - ne sono un pregnante ed estremo esempio. Ne discende che il membro della mia tribù, sarà sempre un giusto per definizione perché mi darà sempre ragione e il suo appoggio anche quando ho torto o commetto un misfatto. Al dominio della ragione il tribalismo populista sostituisce quello della forza, ieri quella fisica, oggi quella mediatica e dei numeri: se siamo in molti, sia pure incompetenti a dire che i vaccini provocano l’autismo o che il riscaldamento climatico è dovuto alle emissioni umane di CO2, questa sarà la verità “oggettiva” perché consensuale, mediatica e perciò “democratica”.

Non a caso molti studiosi hanno parlato di “spirito tribale” e di “estasi della folla”. La folla rassicura, appaga, conforta perché - come scrisse Elias Canetti nel suo famoso libro “Masse e Potere” - nella folla “le distinzioni vengono eliminate” e “nessuno è più grande e migliore di un altro”. Così si può fare di ogni uomo uno scienziato, un economista, un competente: “uno vale uno”, insomma. E così le opinioni di un premio Nobel possono valere quanto quelle di un qualsiasi frequentatore e odiatore di Facebook. Il populismo promette (illusoriamente) di fare addirittura di ogni uomo un re. L’uomo massa ne è naturalmente attratto tanto più che la folla, in quanto fonte di verità, di diritto e di morale – che per di più non riconosce nulla di superiore a sé – sembra suggerirgli la potestà di fare come la sua pancia gli suggerisce. Il populismo tende perciò alla amoralità della forza.

C’è poi nel populismo una componente egualitarista che lo rende una presenza sempre latente nella modernità e in particolare in tutti i partiti e i movimenti di sinistra. Questi vedono nel popolo di sinistra l’unico vero popolo, e l’incarnazione mistica dell’intera popolazione; e quindi del principio democratico della “sovranità popolare”. Questa ovviamente è una falsificazione. Non esiste alcuna “unità” popolare, per fortuna.

E infatti c’è anche oggi - e non solo in Italia - un popolo di destra, la cosiddetta “maggioranza silenziosa”, che oggi non tace più e sembra sempre più pronta a reagire alla lunga egemonia culturale delle élite di sinistra ed alla loro ideologia del politicamente corretto. Sta crescendo un populismo di destra che, pur diverso negli obbiettivi, ha caratteristiche analoghe a quello di sinistra e rischia anch’esso di avere esiti illiberali perché il risultato complessivo dei populismi contrapposti è che ciascuna delle due parti vede il “popolo” altrui come qualcosa di minaccioso e intollerabile, un nemico da detestare e persino odiare.

Il pericolo di questa contrapposizione radicale è l’accentuazione del tribalismo, storicamente latente nella società e nella politica italiana (per varie ragioni storiche e culturali, su cui soprassediamo), dove abbiamo avuto e abbiamo persino un “populismo mediatico-giudiziario” per fortuna limitato finora ad alcuni settori della magistratura, dei media e delle forze politiche.

Mi riferisco cioè alla tendenza a fare prevalere nel dibattito pubblico le appartenenze tribali, le proprie pance sulle proprie teste, le emozioni sulle ragioni, a fare strame dei principi liberali del rispetto delle altrui opinioni, alla demonizzazione delle posizioni altrui, alla tendenza a vivere la passione politica alla stregua di quella calcistica e ad adottare comportamenti e linguaggi da “curva sud”.

Non possiamo tacere infine il fatto che a questo pericoloso gioco tribale stanno partecipando alacremente troppi giornalisti e conduttori televisivi che stanno configurando un vero e proprio populismo mediatico interventista e partigiano che li rende responsabili di una deriva tribalista e illiberale del dibattito pubblico e della stessa democrazia in Italia.

Aggiornato il 08 gennaio 2020 alle ore 11:31