Guerra libica: arrivano i turchi

L’escalation della crisi tra Iran e Stati Uniti, che ha avuto un’impennata con l’uccisione per mano statunitense di Qasem Soleimani, storico comandante della Forza Quds, la brigata d’élite delle Guardie rivoluzionarie iraniane, deve certamente preoccupare per le conseguenze negative che potrà riversare sull’Occidente. Tuttavia, in un ordine pragmatico di priorità il principale incubo che grava sull’Italia è lo sviluppo della guerra civile libica. Rispetto alla vicenda del Paese nordafricano non vi sono ragioni sostenibili per giustificare il male che ci siamo procurati con le nostre stesse mani.

Di fatto, ci siamo giocati la Libia. L’influenza italiana sulle parti in lotta è del tutto svanita. Lo conferma la decisione del Governo di Accordo Nazionale di Fayez al-Sarraj di annullare la missione diplomatica dell’Unione europea a Tripoli, che avrebbe dovuto essere guidata dal nostro ministro degli Affari esteri in queste ore. La scusa ufficiale è che la situazione sul campo non consente di garantire la sicurezza della delegazione dell’Ue. La verità è che Fayez al-Sarraj non sa che farsene delle parole vuote dei governi europei, in primis di quello italiano, dopo che la Turchia è scesa in campo al suo fianco inviando un primo contingente militare. Altri ne seguiranno. Che è ciò di cui aveva bisogno il fragile leader tripolino per arrestare l’avanzata delle truppe del suo acerrimo nemico, il generale Khalifa Haftar, ras della Cirenaica, sotto tutela di Parigi e oggi sempre più uomo di paglia di Mosca e dell’Egitto di al-Sisi. Come dargli torto? Con la capitale sotto assedio, al-Sarraj ha chiesto aiuto a tutti i suoi sostenitori, a cominciare dal Governo di Roma. Ma ha ricevuto risposte lunari sulla necessità di affidarsi alla diplomazia mentre gli piovevano sulla testa i proiettili dei mortai di Haftar.

Il “padrone” della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha capito che era venuto il momento di inserirsi nella partita. E senza giri di parole ha fatto la sola mossa che gli avrebbe consentito in futuro di sedere al tavolo di pace da protagonista, insieme alla Russia, all’Egitto, alle dinastie arabe del Golfo e alla Francia. C’è da supporre che i nostri governanti saranno contenti del disastro rimediato. Abbiamo perso anni preziosi rifiutandoci di prendere la guida di una forza d’interposizione tra le parti in lotta, sotto l’egida delle Nazioni Unite. Solo un tale sacrificio di mezzi, di risorse finanziarie e di uomini ci avrebbe dato la forza, e il prestigio, di pilotare la crisi bellica verso una soluzione diplomatica. Invece, il Governo della sinistra giallo-fucsia, ingolfato da fetido pacifismo terzomondista, ha buttato sulle spalle delle future generazioni di italiani un grandissimo pericolo. Già, perché la mano tesa di Erdoğan a Tripoli non è gratuita. Oltre alla negoziazione, tra Turchia e Libia, delle nuove Zone economiche esclusive nel Mediterraneo meridionale che mettono in scacco gli interessi marittimi di Grecia e Cipro, l’obiettivo di Ankara è di avere in territorio libico una base navale avanzata. L’Italia si ritroverà fuori dell’uscio di casa, a poco più di duecento miglia nautiche dalle sue coste, la Marina da guerra di una potenza regionale che sta accrescendo il suo apparato offensivo.

Si dirà: la Turchia è nostra alleata nella Nato. Ma per quanto tempo ancora? Quella che stiamo vedendo espandersi negli ultimi anni non è più la Turchia laica e moderna di Mustafa Kemal Atatürk, ma un regime autoritario d’ispirazione islamista che nelle intenzioni del suo leader dovrebbe rinverdire i fasti dell’Impero ottomano. Non guardiamo all’oggi, ma proiettiamo gli assetti che si vanno consolidando ai prossimi decenni: chi garantirà i nostri figli, tra qualche decennio, dal rischio di una pressione neo-ottomana sull’Italia? Gli ignavi dei “Palazzi romani” sono rimasti immobili baloccandosi in un neutralismo suicida e sperando che altri (leggi Grande fratello Usa) ci tirassero fuori dai guai facendo il lavoro sporco per noi. Non hanno capito, gli insulsi di Roma, che i tempi sono cambiati e che Washington ha smesso di fare regali ad amici più o meno sinceri.

Il problema della perdita di peso nella politica internazionale non è solo di questi mesi, ma viene dal passato. È dal 2011, dalla caduta del regime del colonnello Gheddafi con la “pugnalata alla schiena”, inferta all’Italia dall’avventuriero francese Nicolas Sarkozy appoggiato dall’Amministrazione americana di Barack Obama e in combutta con il Governo di sua Maestà britannica, che in politica estera non ne azzecchiamo una. Gli anni lunghi della sinistra al potere hanno portato all’annichilimento della difesa degli interessi nazionali negli scenari esteri. L’idea di non far valere la forza del nostro apparato bellico, pur schierato con successo in molti teatri di crisi in appoggio alle iniziative di peacekeeeping, ci ha tolto peso negoziale e credibilità. I leader del centrosinistra, che andrebbero messi al muro (politicamente parlando) per il male fatto all’Italia, continuano imperterriti a stazionare nelle stanze del potere parandosi dietro la balla a metà strada tra il demenziale e l’ipocrita che le questioni di politica estera devono essere affrontate in sede europea. Ma se l’Europa politica non esiste, chi prendono in giro? La Gran Bretagna è fuori dall’Unione; la Francia non ha mai smesso di perseguire la sua politica imperialista; la Germania idem. E con chi la dovremmo fare, la politica comune europea? Con Malta e il Lussemburgo?

Ieri, sul quotidiano “La Stampa”, è apparso un editoriale a firma di Marta Dassù, grande esperta di geo-politica e direttore di “Aspenia”, la rivista trimestrale di affari internazionali di Aspen Institute Italia. Sottoscriviamo ogni parola del suo scritto. La diagnosi della Dassù è perfetta: “...In tempi duri come questi, di guerre vicine e lontane e di accesa competizione fra grandi potenze, gli italiani non hanno la minima idea di dove collocare il proprio interesse personale e nazionale”.

Per l’esperta dovremmo reagire con una visione strategica aggiornata soprattutto nella crisi libica dove sono in gioco interessi per l’Italia che travalicano gli ambiti delle questioni energetiche o migratorie. Ha ragione da vendere la Dassù: decidere da che parte stare e restarci sopportandone le conseguenze. Invece, la cifra è quella dei saltafossi che un giorno stanno da una parte e il giorno dopo sulla sponda opposta. A differenza della Dassù, però, pensiamo che sia tempo sprecato porre la domanda all’odierno Esecutivo che è un morto che cammina. Il problema semmai va posto ai leader in pectore dell’Italia che verrà (prima o poi).

Chiediamo a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni quale sia la loro strategia in politica estera e nel comparto della Difesa. Cosa faranno una volta (speriamo presto) al Governo del Paese? Si comporteranno come quelli del Pd e i Cinque Stelle? Pensano anche loro che l’affare libico si limiti ai quattro barconi di disperati che cercano di arrivare clandestinamente in Italia? Il nostro Paese, per storia, potenza industriale e capacità militare merita di stare al centro dello scacchiere mediterraneo. Meglio che lo comprendano per tempo prima che sia troppo tardi. Perché dice bene Marta Dassù: “Se l’Italia non comincerà a considerare una priorità la politica estera, sarà la politica estera a occuparsi dell’Italia”.

Aggiornato il 07 gennaio 2020 alle ore 11:21