
Siamo al 2020. Comincia il terzo decennio del nuovo secolo. Forse un giorno i posteri lo classificheranno come l’incipit dei “mitici anni Venti”. Che, invece, saranno tutt’altro che favolosi. Non sono in grado di valutare adesso l’impatto dei cambiamenti sociali che essi annunciano. Sul tappeto non c’è solo la questione ambientale connessa ai cambiamenti climatici, come vorrebbero i laudatori di quel personaggio misterioso che risponde al nome di Greta Thunberg. Le domande più pressanti riguarderanno il modello di sviluppo che i Paesi occidentali vorranno abbracciare. Quale futuro per l’occupazione di ampie fasce di popolazione prive delle necessarie competenze per stare al passo con le innovazioni tecnologiche e scientifiche che stanno rivoluzionando i processi produttivi? Quanti lavori si perderanno e quanti nuovi profili professionali sorgeranno al posto di quelli scomparsi? Dove ci condurrà l’intelligenza artificiale? Le comunità, dovranno misurarsi con le logiche della dilagante post-modernità consumistica o troveranno in se stesse le motivazioni per intraprendere percorsi valoriali controcorrente rispetto alla direzione di flusso della società liquida? E dell’Italia come patria cosa sarà? Dovremo rassegnarci al fatto che il nostro Paese diverrà terra senza frontiere, mera espressione geografica, punto di transito delle grandi migrazioni umane in cammino dal Sud verso il Nord del mondo? Domande in cerca di risposte. E risposte che richiedono sguardo lungo.
Ma la capacità di trascendere le vicissitudini del quotidiano per guardare lontano non è prassi diffusa. Non è colpa della gente comune, viviamo tempi difficili. Come si fa ad accusare gli italiani di scarsa lungimiranza quando per primi gli attuali governanti brancolano nel buio mancando della benché minima visione di futuro? Eppure, bisognerebbe provare ad alzare la testa per guardare oltre. Non è questione d’attitudine, ma di volontà. Non è detto che tutti desiderino farlo. A molti, la congiuntura quotidiana sta bene così com’è. Il futuro, per quei molti, è una sorta di automatismo della storia: accadrà ciò che non può non accadere. È il rapporto di necessità causale determinista che scandisce la vita degli uomini, e delle donne, antropologicamente di sinistra. Non appartiene al mondo della destra.
Alcuni anni orsono, durante un dibattito, una persona del pubblico mi pose una domanda spiazzante: “Mi indicherebbe, oltre l’ideologia, due sentimenti d’immediata percezione che distinguono l’uomo di sinistra da quello di destra?”. Dopo alcuni secondi d’interminabile silenzio speso alla ricerca di una risposta minimamente plausibile, mi venne di dire: “L’uomo di sinistra si aggrappa all’ottimismo; l’uomo di destra ha dalla sua la speranza”. A distanza di tempo credo ancora in quella distinzione. Basta vederli all’opera gli uomini e le donne di sinistra, i progressisti. Affrontano la vita con l’arroganza di chi si sente dalla parte giusta della storia; di chi, portatore di una verità assoluta, sa che il suo paradigma sociale ed economico prevarrà su quelli alternativi perché “non potrà esserci nient’altro, ché se ci fosse non sarebbe che errore o espressione del Male”.
Gli uomini di destra non hanno eguali certezze ma si affidano al fattore dinamico della speranza per provare a costruire un mondo migliore. E diverso. Intendiamoci: non parlo di speranza in senso fatalistico. Non si tratta di una passiva attesa messianica a cui consegnarsi per assistere all’inverarsi di un intervento provvidenziale di natura salvifica. L’idea di speranza di cui parlo si associa a quella di lotta. Perché accada ciò che si desidera è necessario combattere, impegnarsi nella lotta: la speranza è conquista, l’ottimismo è pretesa. Tuttavia, la speranza da sola non basta al conseguimento dei propri obiettivi. Che siano dei singoli o di una comunità d’individui. All’idea di speranza, già combinata a quella della lotta, si unisce il terzo elemento di una triade valoriale che si muove liberamente su due piani dell’esistenza: spirituale e storico. È la memoria. Non v’è speranza senza memoria. Non è scontato che tutti lo pensino. Al contrario, il male che dilaga come un virus letale tra gli umani di questo tempo storico è che essi dimenticano. E nessuna lotta può principiare se chi la ingaggia non ha memoria di ciò che è stato.
Qualche giorno fa, a proposito di un articolo che ho scritto sulla questione della richiesta di autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini per la vicenda della “nave Gregoretti”, paventando la politicizzazione nell’operato dei magistrati giudicanti del Tribunale dei Ministri di Catania, una lettrice del nostro giornale ha rilasciato il seguente commento sulla pagina Facebook: “Sono trenta anni che succede. Non potete cadere dal pero”. Giudizio caustico ma giusto che richiama tutti noi di destra a non smarrire la memoria. Oggi tocca a Salvini essere vittima di una tracimazione di un potere dello Stato. Ma, prima di lui, è toccato a Silvio Berlusconi. E prima ancora alla politica della Prima Repubblica che è stata buttata via con l’acqua sporca dalla stagione giustizialista di “Mani pulite”. Lo Stato di Diritto non è il mondo perfetto, ma il migliore tra quelli che si possano desiderare. Ricordiamocene quando politici maldestri e sostanzialmente stupidi giocheranno a fare gli apprendisti stregoni della Giustizia, scatenando il più bieco giustizialismo. Quando pensiamo a un futuro fatto di solo mercato, non trascuriamo di ricordare che anche il mercato se non regolato può causare miseria e disperazione. E fare male. Ieri, come oggi, il pericolo per le giovani generazioni è la droga. Non soltanto quella tradizionale: marijuana, cocaina, crack. Negli ultimi tempi è in circolazione una micidiale sostanza che vorrebbe indurre artificiosamente chi l’assume ad amare il prossimo e a rigettare qualsiasi altro sentimento o pensiero divergente, segnandolo con lo stigma dell’odio. Chi la spaccia non sono i soliti farabutti della criminalità organizzata, ma dei giovanotti e signorine perbene che si fanno chiamare Sardine. Con il pretesto di bandire l’odio dal lessico famigliare degli italiani puntano a intorpidire le menti con la sostanza soporifera del buonismo, fino a renderle inoffensive. Le sardine amano, ma solo chi dicono loro. Per essere amati bisogna stare dalla parte giusta che è quella dei progressisti. Gli altri, coloro che dissentono, che si oppongono alla narcosi del pensiero critico sono “haters”, odiatori nemici del Bene e della pacifica coesistenza sociale. Non predicare cose forti, non usare espressioni crude, meglio ancora non dire se dire significa dargli torto: questo è il credo delle sardine.
Francamente, se dovessi immaginare il volto odierno dell’oscurantismo, mi apparirebbe alla vista una sardina. Nemico della loro droga, invoco il diritto alla lotta quale motore del divenire della civiltà. Chi oggi si dichiara appagato non è il vincitore ma lo sconfitto di questo tempo storico. A maggior ragione adesso che entriamo negli anni Venti. Se non fosse altro che per assonanza, si guardi agli anni Venti degli ultimi secoli: sono stati i momenti della semina che ha segnato, in positivo o in negativo, le successive epoche. Se è vero che gli anni Venti del Novecento hanno incubato e sviluppato i totalitarismi, nell’Ottocento quello stesso decennio ha spalancato le porte alle rivoluzioni nazionali e alle epopee risorgimentali. Ora, non so dirvi cosa sarà il terzo decennio del terzo millennio. Quel che so è che tutti noi potremo vantare il privilegio, che non è roba da poco, di poter affermare “in quell’inizio, prodromo di un nuovo vento di speranza, io c’ero”. Auguri!
Aggiornato il 30 dicembre 2019 alle ore 00:35