Il problema della riforma della Giustizia è da sempre certamente uno dei nodi centrali del dibattito politico nel nostro Paese e probabilmente è anche uno dei motivi per cui è caduto il primo Governo Conte.
Io credo che il sistema giustizia debba essere ripensato anche nella sua struttura generale. Non si può non negare l’enorme distanza che oggi sussiste tra il diritto ad ottenere giustizia da parte dei cittadini e i meccanismi infernali dei processi sia civili che penali. Andrebbe immaginata una giustizia del buon senso. Buon senso significa che un processo debba essere breve; buon senso significa che un processo debba essere giusto; buon senso significa che la vittima del reato debba avere almeno pari considerazione rispetto alle altre parti del processo. Io credo che mai come oggi i concetti di sovranità, popolo e giustizia siano strettamente legati tra di loro.
Leggendo la Costituzione la parola popolo compare quattro volte. Nell’articolo 1 quando si dice che la sovranità appartiene al popolo; nell’articolo 101, che stabilisce che la giustizia è amministrata in nome del popolo; nell’articolo 102, che stabilisce i casi e le forme di partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia. Esiste poi l’articolo 71, che statuisce che l’iniziativa di legge può essere affidata al popolo. Pertanto è così azzardato sostenere che il popolo avvicina e unisce a sé giustizia e sovranità? Se così fosse, e io ne sono convinto, anche le fondamenta del sistema giustizia devono essere ripensate. Ci sono alcuni esempi.
Recentemente sono state introdotte alcune norme che hanno modificato la disciplina dell’applicazione del rito abbreviato nel processo penale; ora infatti per i reati gravissimi, quali l’omicidio, non sarà più possibile chiedere il rito abbreviato e la riduzione di un terzo della pena. Come può non sostenersi che questa riforma nasce sull’onda di un sentimento popolare di buon senso che non comprendeva come un omicida potesse accedere a uno sconto di pena di un terzo solo perché scegliesse un rito processuale piuttosto che un altro? Oppure, come può immaginarsi di buon senso un sistema processuale che consente al ladro rapinatore di costituirsi parte civile contro il derubato per il sol fatto che quest’ultimo ha tentato di difendere se stesso o i propri familiari?
Il risultato è che non sempre la giustizia è amministrata “in nome del popolo italiano”; popolo e giustizia o quantomeno senso di giustizia debbono essere concretamente inscindibili. La riforma proposta del ministro Alfonso Bonafede non va in questa direzione. Esempio: l’esigenza di una ragionevole durata del processo penale così come prevista nella Costituzione non può essere soddisfatta sostenendo che un processo penale invece di durare nove anni ne duri sette. Cinque, sei o sette anni sono sempre e comunque un tempo infernale per un processo penale. Occorrerebbe intervenire sulla struttura del processo. Quando si è introdotto nel 1989 il nuovo processo penale sul modello di quello americano si era pensato che i riti alternativi diventassero un deterrente per non far arrivare l’imputato al dibattimento. Tutto ciò si è rivelato un fallimento; se l’udienza preliminare doveva essere un filtro per i procedimenti, così non è stato e i tempi si sono moltiplicati. In America i riti alternativi funzionano perché andare in dibattimento è certamente più rischioso per l’imputato, specie se sa di essere colpevole.
Butto lì una provocazione forte: e se immaginassimo con tutti i correttivi del caso, anche costituzionali, un processo penale per i reati più gravi, con il giudice che vigila sulla regolarità formale del processo e una giuria popolare come quella di una Corte d’Assise, ma senza i giudici togati, che giudica sulla colpevolezza o meno dell’imputato senza l’obbligo della motivazione, sarebbe così scandaloso? Certamente meno imputati correrebbero il rischio di andare in dibattimento. Facendo certamente inorridire i puristi della procedura, potrebbe essere, però, un modo per legare ancora di più giustizia e popolo. Tanto, peggio di come funziona oggi il processo penale non potrà mai essere, sia per ciò che concerne l’imputato e soprattutto per quel che riguarda la vittima del reato, certamente la parte più debole del processo.
Così come la riforma della prescrizione è di fatto una resa incondizionata di tutte le parti del processo al pubblico ministero. Interrompere la prescrizione dopo il rinvio a giudizio o dopo il primo grado significa tenere l’imputato ostaggio del processo praticamente un tempo infinito e soprattutto nella disponibilità del pubblico ministero, e questo non è giusto. E nemmeno la possibilità di impugnare una sentenza di assoluzione il primo grado da parte del pubblico ministero; se un imputato è assolto in primo grado, il processo deve finire.
Un altro mito che certamente deve essere rivisto è quello dell’obbligatorietà dell’azione penale. È inutile iscrivere a registro migliaia di procedimenti, spesso del tutto insignificanti, solo per rispettare un’apparente, e inesistente nei fatti, principio di uguaglianza. Meglio sarebbe se il Parlamento decidesse anno per anno, sentiti i procuratori generali presso ogni Corte d’Appello, quali siano le priorità in ordine ai reati da perseguire stabilendone una gerarchia nell’esercizio dell’azione penale.
Sono convinto pertanto che la riforma Bonafede non passerà. Ma bisogna aprire il dibattito sulla riforma della giustizia in maniera radicale e completa. So che è scomodo dirlo, ma fin quando il potere giudiziario come un potere dello Stato condizionerà fortemente gli altri due, per la loro insita debolezza, le cose non cambieranno nel senso dovuto. Ecco perché da avvocato sogno ancora un Paese dove la tripartizione dei poteri esista davvero, dove un potere esecutivo e un potere legislativo esercitino i loro poteri in piena e autentica autonomia e non con un potere giudiziario che spesso, trovando il vuoto intorno, cerchi di esercitarli tutti e tre.
Aggiornato il 21 settembre 2019 alle ore 14:11