
Il popolo dei Cinque Stelle ha benedetto la nascita del Governo giallo-fucsia che mette insieme grillini e “dem”. Il voto di ieri sulla piattaforma Rousseau ha fornito alcune importanti indicazioni. Innanzitutto i numeri. Al quesito oggetto della consultazione che recitava: “Sei d’accordo che il M5S faccia partire un governo, insieme al Partito Democratico, presieduto da Giuseppe Conte?”, hanno risposto 79.634 iscritti dei quali 63.146 (79,3%) hanno votato sì, 16.488 (20,7%) no. Considerato che la platea di Rousseau ha raggiunto i 117.194 iscritti, l’affluenza al voto on-line può essere giudicata un successo.
Nonostante le invettive della politica tradizionale contro tale composizione della linea politica del Movimento pensata da Gianroberto Casaleggio per realizzare l’utopia della democrazia diretta, la piattaforma Rousseau ancora una volta l’ha spuntata. La macchina ha catalizzato le aspettative dei protagonisti della politica nel momento centrale, e dirimente, per la costruzione della nuova maggioranza parlamentare. Benché possa apparire bizzarro, ieri tutti i Palazzi del potere sono rimasti appesi al responso della piattaforma Rousseau. Stando ai risultati, ha vinto il padre-padrone del Movimento, Beppe Grillo, che ha imposto l’intesa con il Partito Democratico e, soprattutto, ha offerto la legittimazione di un voto plebiscitario interno al nuovo leader dei Cinque Stelle, il trasformista Giuseppe Conte. Escono sconfitti Luigi Di Maio e Davide Casaleggio della Casaleggio Associati. Non è un caso che sia il capo politico dei Cinque Stelle, sia il figlio ed erede dell’ispiratore e vate del pensiero rivoluzionario grillino si siano precipitati davanti alle telecamere a esaltare la grandezza del Movimento e della piattaforma telematica che lo governa rivendicandone l’insostituibilità nel futuro dell’organizzazione politica. In pratica, una excusatio non petita che ha messo in imbarazzante evidenza la condizione di debolezza di entrambi nei nuovi rapporti di forza all’interno del Movimento.
Un risultato più combattuto, con distanze numeriche ravvicinate, avrebbe consentito a Di Maio di rivendicare un ruolo di ricucitore di una base spaccata sulla scelta della nuova strada da intraprendere sotto braccio ai nemici di sempre. Una vittoria di misura dei sì avrebbe dimostrato l’allentamento della presa del padrone Beppe Grillo sul Movimento. Invece, l’80 per cento sfiorato è un pugno nello stomaco a chi, come Luigi Di Maio e Davide Casaleggio, avrebbe gradito sfruttare il momento di confusione per ridimensionare la figura del garante rispetto alla libertà di manovra dell’organizzazione.
Si era capito da subito che Di Maio non voleva l’accordo con il Pd. Ma Grillo ce l’ha portato ad accettarlo prendendolo per l’orecchio, come si fa con quei ragazzini discoli che non ubbidiscono ai genitori. Già, perché Luigi è stato trattato da ragazzino discolo con tanto di rimproveri, di buffetti dati a scopo educativo e dell’immancabile premio d’incoraggiamento che non si nega agli adolescenti che sbagliano. Probabilmente il capo grillino, somigliante a un’anatra zoppa, riceverà il suo pacco dono fuori stagione da Giuseppe Conte in persona. Nientemeno che la poltrona della Farnesina. Luigi Di Maio, ministro degli Esteri. Suonerebbe bene se non fosse che per fare seriamente il ministro degli Esteri occorre che si abbia una particolare stoffa. Puoi essere un Gaetano Martino o un Giulio Andreotti, allora quella poltrona si trasforma in una picca piantata sull’Everest. Ma se sei un giovane con nessuna esperienza internazionale e mancante di solide relazioni personali con i grandi della Terra, quella stessa poltrona diventa la scatola del Lego con i cui mattoncini passare il tanto tempo libero. Anche i marmi del Foro Italico hanno compreso che la nomina ministeriale che si profila per Luigi Di Maio ha il classico sapore del “Promoveatur ut amoveatur”. Tanto più che a sovrastare la figura del capo calante dei Cinque Stelle c’è quella del premier levante Giuseppe Conte che, in quest’anno di governo giallo-blu, che lui non ricorda di aver presieduto, si è fatto un nome all’estero allacciando rapporti personali con tutti i big dell’Occidente, da Donald Trump alla signora Angela Merkel passando per Emmanuel Macron. Pensate che un arrivista super della fatta di Conte lascerà spazio di manovra a Luigi Di Maio, che non sia il taglio di qualche nastro o la visita a un nuovo asilo costruito in Africa con i denari della cooperazione italiana?
Sul fronte dei rapporti con gli alleati, Nicola Zingaretti non è Matteo Salvini, non ha la medesima rozza ma spontanea umanità. Quell’insopportabile senso di superiorità che non abbandona i politicanti di una sinistra ipocrita e arrogante, il nuovo capo dei “dem”, Nicola, detto saponetta, ce l’ha appiccicato addosso anche quando gioca a fare il simpatico. Zingaretti ha fatto capire dal primo momento che il suo interlocutore tra i pentastellati sarebbe stato il premier Conte. Così ha condotto il negoziato per la formazione del Governo e tutto lascia presumere che niente cambierà per il futuro. Di Maio verrà gradualmente emarginato fino ad essere definitivamente accantonato non soltanto perché ha puntato sul cavallo sbagliato che l’ha mollato sul più bello, ma perché Beppe Grillo, stufo del suo giocattolo, non prevedendo per esso alcun radioso avvenire, si è convinto della necessità di alienarlo al Partito Democratico di modo che ne faccia una sua costola funzionale a coprire spazi di consenso altrimenti non raggiungibili. Aver scelto Conte quale punta di diamante del nuovo corso pentastellato è la conferma del disancoraggio del Movimento dalle posizioni originarie di partito anti-establishment e il suo approdo alla sponda dei difensori del sistema, con l’Affidavit della compagine “dem” che in Italia detiene il brand dell’utile idiota dei poteri forti stranieri. In questo schema non c’è posto per Di Maio.
In fondo, in questo volgarissimo “8 settembre” dei giorni nostri, dove i combattenti di ieri si affannano a dismettere le vecchie uniformi per mischiarsi ai nuovi vincitori al grido di “Ora e sempre discontinuità!”, è rimasto solo lui, il ragazzo di provincia, a rivendicare il lavoro fatto con il Governo pentaleghista. Un’antica indole cavalleresca, adesso che è stato disarcionato, ce lo fa apparire quasi simpatico, sebbene la sua appartenenza grillina lo renda irredimibile. Se Di Maio soltanto volesse cambiare un destino altrimenti segnato, dandosi una speranza di futuro ha una sola strada da percorrere benché drammaticamente stretta e irta di ostacoli. Lo scivolamento del Movimento a sinistra lascia scoperta una porzione significativa di elettorato grillino che non accetterà mai di morire renziana. Si tratta di una quota di popolo che la pensa come lui su molte cose, a cominciare dall’approccio drastico allo stop all’immigrazione illegale. Questa gente si sente di destra, ma non sarebbe a proprio agio col centrodestra di Silvio Berlusconi e di Matteo Salvini. Iniziare a pensare di rappresentarla fuori del perimetro pentastellato potrebbe essere il primo passo verso il riscatto e verso l’affrancamento dall’ingombrante potestà putativa del padre-padrone Beppe Grillo.
Aggiornato il 05 settembre 2019 alle ore 10:44