L’Unione europea sceglie i nuovi vertici, forse

Ancora una volta l’Unione europea si è rivelata essere un gigante dai piedi d’argilla. Non sono bastate 18 ore di negoziato-fiume per scegliere i nomi dei politici da mandare a ricoprire le principali cariche istituzionali in seno all’Unione. Per l’occasione i capi dei governi di Germania, Francia, Spagna e Olanda avevano preventivamente concordato un pacchetto di nomine che ieri l’altro, alla prova del confronto nel consesso generale dei Capi di Stato e di governo dei 28 Paesi Ue, è miseramente naufragato. Non che la cosa dispiaccia. Al contrario. Dopo che si sono zittite le fanfare degli iper-europeisti sullo scampato pericolo della vittoria dei sovranisti alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, ci si inizia a rendere conto che niente è più come prima e che se non hanno sfondato gli euroscettici i campioni dell’europeismo non sono messi meglio.

La frammentazione del voto lo scorso 26 maggio ha avuto una prima vittima illustre: la spavalderia con la quale tedeschi e francesi imponevano agli altri partner le proprie scelte non regge più. La cronaca di queste ore dà conto di un moto di ribellione che sta montando nelle capitali dei Paesi dell’Est e del Meridione, impensabile fino a qualche anno addietro. Cos’ è accaduto? Profittando della presenza al G-20 ad Osaka, la signora Angela Merkel ha riunito quelli che riteneva dovessero essere gli interlocutori privilegiati per concordare le nomine per l’Ue.

Il compromesso messo a punto con il francese Emmanuel Macron, lo spagnolo Pedro Sànchez e l’olandese Mark Rutte, prevedeva che alla guida della Commissione andasse l’olandese Frans Timmermans, il tedesco Manfred Weber avrebbe preso la presidenza del Parlamento europeo, la bulgara Kristalina Georgieva quella del Consiglio europeo, il  belga Charles Michel sarebbe stato destinato alla poltrona di Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza. L’organigramma sarebbe stato perfezionato con l’assegnazione a un esponente francese della presidenza della Banca centrale europea, al posto dell’uscente Mario Draghi.

Tutti contenti e soddisfatti, vecchi e nuovi padroni dell’Unione che si saranno detti: l’intendenza seguirà. Invece, con sommo disappunto e sorpresa degli interessati, l’intendenza non ha per niente gradito. A cominciare dai membri del Partito popolare europeo che non hanno accettato di perdere il diritto a reclamare il posto di presidente della Commissione per un proprio esponente, visto che comunque il Ppe si è confermato il primo gruppo europarlamentare anche nella nuova legislatura. L’olandese Timmermans, infatti, ancorché sponsorizzato dalla cancelliera Angela Merkel, è un socialista, cioè l’esponente di un partito che alle ultime elezioni è stato pesantemente punito dagli elettori.

Sono stati per primi i soci dell’Est a battere i pugni sul tavolo. I leader di Polonia e di Ungheria un socialista alla guida della casa comune non ce lo vogliono.  A questi si sono aggiunti i rappresentanti di Irlanda, Cipro, Romania, Croazia e Lettonia. Quanto basta per bloccare, a norma dell’articolo 17 del Trattato sull’Unione europea, la proposta confezionata nel quadrilatero del Nord-Ovest. Ma la protesta non avrebbe avuto la forza dirompente che è stata registrata nelle ultime ore se al gruppo dei piccoli non si fosse aggregata l’Italia che offre valore aggiunto alla ribellione. Morale della favola, i capi di Stato e di governo si rivedranno questa mattina per riprendere il negoziato, probabilmente d’accapo. Cosa insegna questa storia? Moltissimo.

In primo luogo, che non esiste alcun afflato comunitario che indichi la strada da intraprendere per il futuro solidale dell’Unione europea, ma un groviglio talvolta inestricabile di interessi di parte e di egoismi nazionali. Perché pensate che la signora Merkel volesse così fortemente il socialista Timmermans alla guida della Commissione, tradendo di fatto la sua famiglia politica europea? Semplicemente perché ha seri problemi di stabilità in casa sua con l’ala sinistra della “Große Koalition”, per cui mettere uno del Pse a Bruxelles l’avrebbe agevolata nel dialogo interno con i socialisti tedeschi. In secondo luogo, la presa odierna della signora Merkel sugli assetti comunitari non è più quella dei suoi anni ruggenti della fine del primo decennio del secolo e di quasi l’intero secondo.

Come non lo è quella dell’asse carolingio. Il presidente Emmanuel Macron pensava di essere il dominus della partita? Ma se non gli riesce di tenere le redini del cavallo francese, figurarsi quello del resto d’Europa. In terzo luogo, c’è un messaggio per i catastrofisti nostrani che non dovrebbe essere ignorato. Sono mesi che si fa a gara a presentare il nostro Paese come ultima ruota del carro, isolato, mortificato da tutti gli altri, sotto scacco della Commissione per la minaccia di procedura d’infrazione sui conti pubblici, trattato da paria al tavolo dei padroni. Si tratta di una gigantesca fake news orchestrata per spaventare gli italiani.

La verità l’ha detta ieri la signora Merkel riconoscendo che un accordo in contrasto con i Paesi di Visegrad e con l’Italia sarebbe destinato a creare tensioni. Che tradotto dal politichese significa: senza di loro, Italia in primis, non si va da nessuna parte. Il premier Giuseppe Conte, nella circostanza, ha assunto un profilo ondivago. Prima si è mostrato accondiscendente sull’ipotesi di votare in blocco il pacchetto Merkel-Macron, poi ha cambiato idea passando dalla parte dei ribelli. È ipotizzabile che la repentina inversione di rotta sia stata determinata da un intervento politico di Matteo Salvini il quale, in linea con l’ungherese Viktor Orbàn, ha chiuso la porta a una presidenza socialista della Commissione. Ai mercati è piaciuto l’atto di forza italiano in sede comunitaria. Stamane il Btp decennale ha aperto sotto la soglia psicologica del 2 per cento di rendimento (1,9240 per cento), cosa che non accadeva da prima dell’insediamento del governo giallo-blu. Cosa dobbiamo attenderci dagli incontri delle prossime ore?

Dopo il primo giro di consultazioni che è servito a bruciare il castello di carta costruito sul diktat del prendere-o-lasciare, è ipotizzabile che si cambi registro. E non è escluso che l’Italia, tenuta ai margini all’inizio, faccia capolino nei momenti decisivi della trattativa. C’è ancora qualcuno che s’intestardisce a sostenere che siamo soli e negletti in Europa? Vista la figuraccia rimediata da quelli che in teoria dovrebbero contare più degli altri, meglio non esserci stati nel loro club esclusivo. Meglio, invece, continuare a giocare da liberi battitori, fare gli outsider. Si guadagna in salute e in autostima.

Aggiornato il 02 luglio 2019 alle ore 12:15