
Per i Cinque Stelle il caso di Armando Siri, sottosegretario alle Infrastrutture e ai Trasporti, leghista, raggiunto da un avviso di garanzia per una presunta questione di corruzione, sembra essere diventato il “vello d’oro” che guarirà il corpo grillino, piagato dall’inarrestabile emorragia di consensi.
Può darsi che, dopo il teatrino montato sullo storytelling del MoVimento puro e duro che lotterebbe per restare immune dalle esalazioni malavitose fuoriuscite dagli orifizi dell’alleato leghista, qualche trinariciuto giustizialista ci creda e torni a sperare di rivedere un dì all’opera l’antico spirito “iper-manettaro” del primo Beppe Grillo. Non vi è dubbio che vi sia stato un tempo in cui gli italiani hanno ceduto ad un’insana passione per le forche e per i loro profeti: i “Savonarola” in sedicesimo dei tempi bui di Tangentopoli e dintorni. Ma quel tempo è tramontato. Gli italiani del terzo millennio hanno riscoperto una catena dei valori che dall’ultimo decennio dello scorso secolo sembrava smarrita. Matteo Salvini lo ha capito e, prima degli altri, ha riposizionato la Lega su una nuova rotta garantista che, al momento, sta pagando in termini di consenso.
Cosa è accaduto? Nel mentre la politique politicienne si barcamenava in frusti tatticismi, il “Capitano” si è dato a predicare la coerenza quale valore indefettibile della categoria del politico. Di solito le rivoluzioni si fanno con le armi. Tuttavia, ve ne sono alcune, silenziose, che usano la forza delle parole per compiersi. Quell’inusuale richiamo alla coerenza del politico ha avuto per Salvini il medesimo effetto che ebbero i colpi di mortaio esplosi dall’incrociatore “Aurora”, ancorato nella Neva davanti alla residenza imperiale degli zar a San Pietroburgo, per spianare la strada ai comunisti bolscevichi nella presa del Palazzo d’Inverno la notte fatidica tra il 7 e l’8 del novembre 1917 quando in Russia si completò la nefasta “Rivoluzione d’ottobre”. Quelli che, al contrario, non ne hanno compreso l’importanza e la capacità d’impatto sull’opinione pubblica sono stati affondati nelle urne o ne sono usciti malconci.
Ora, non sono pochi gli analisti e i commentatori che si interrogano sul perché Salvini abbia deciso di difendere ad oltranza il sodale di partito Armando Siri, rischiando un calo di popolarità e di offrire un indebito vantaggio elettorale all’alleato-avversario Luigi Di Maio. Il leader leghista avrebbe potuto chiudere con estrema rapidità il caso del suo sottosegretario chiedendogli di lasciare l’incarico per opportunità politica, salvo poi a passare al contrattacco sulle molte contraddizioni che minano la credibilità del movimento grillino. Salvini avrebbe potuto far valere il principio: lascia Siri, ma lascino anche i primi cittadini pentastellati, dalla sindaca di Roma Virginia Raggi a quella di Torino Chiara Appendino passando per l’ineffabile sindaco di Livorno Filippo Nogarin, che nel corso del loro mandato sono stati indagati per reati non proprio classificabili come bagattellari. Ebbene, Salvini non ha inteso utilizzare l’arma che avrebbe potuto procurargli un positivo riscontro presso gli elettori delle città interessate dal “malgoverno” grillino. Invece, spunta una dichiarazione del “Capitano” che accende la lampadina della curiosità.
Nel corso di un comizio tenuto al Galluzzo, nella periferia di Firenze, per sostenere il suo candidato sindaco, Salvini ha testualmente affermato: “Io sono abituato a non abbandonare mai gli uomini con cui si è fatto un pezzo di strada insieme, e questo vale a livello locale come a livello nazionale”. Lealtà. Che sia questa la seconda chiave, dopo la coerenza, che il leader leghista ha individuato per accedere alle istanze sedimentate nel profondo della coscienza dell’italiano medio? Se così fosse la Lega non dovrebbe temere alcuna ripercussione sulle urne del 26 maggio. Al contrario, l’effetto boomerang del caso Siri potrebbe riversarsi sul competitor grillino e sul doppiopesismo morale del suo MoVimento del quale l’opinione pubblica sta cominciando a svelare l’ipocrita utilitarismo. È evidente che la partita, in tal caso, si sposterebbe dal piano della contesa elettorale ad uno più sottile, prepolitico. Si tratta di una differente antropologia che concettualizza la ridisegnata figura del rappresentante del popolo. All’enfatizzazione del profilo di trasparenza (valore debole), subentrerebbero la coerenza e la lealtà (valori forti). Se così fosse, sarebbe un gran bene. E sarebbe anche il modo più concreto e dritto per far tornare in campo catene valoriali che appartengono al pensiero di destra e che nel tempo sono state penalizzate dalle criminalizzazioni e dalle interpretazioni caricaturali date di esse dai nemici politici. Se davvero fosse come l’abbiamo raccontata, allora il quesito vero a cui gli italiani dovrebbero rispondere nelle urne del prossimo 26 maggio sarebbe il seguente: chi volete che vi guidi, qualcuno che grida onestà-onestà ma, come unica dote, vi mostra la sua natura giustizialista, oppure chi osa dire, senza mostrare interesse per calcoli di convenienza elettorale: io un amico non lo abbandono?
Non vogliamo spararla grossa ma in un mondo che va in overdose di eroi virtuali, viventi soltanto nei teatri di posa delle fiction o in quelle manomissioni del reale che sono i “reality”, un ritorno di greca “ἀρετή”, di romana “virtus”, di solido valore virile, potrebbe fare la differenza nel prosaico mercato elettorale. Si vedrà, ma i sondaggi, per quel che valgono, già sembrano certificarlo.
Aggiornato il 06 maggio 2019 alle ore 10:26