Giovanni Tria, ministro dell’Economia “terzo” nel Governo giallo-blu, ieri l’altro in Senato ha sganciato una bomba incendiaria. Il contesto era quello della Commissione Finanze davanti alla quale il ministro avrebbe dovuto riferire degli esiti dell’Ecofin del 12 febbraio scorso.
Sarebbe stata una seduta di routine se non fosse stato per quella frase pronunciata quasi al termine dell’audizione, in risposta a una domanda del senatore grillino Elio Lannutti, a proposito delle circostanze che spinsero il Governo di Enrico Letta, nel 2013, ad accettare la regolazione delle crisi bancarie secondo il modello del bail-in. Dice Tria: “Sulle norme sul bail-in in Italia erano quasi tutti erano contrari, anche la Banca d’Italia che in modo discreto si oppose al bail-in... era ministro Fabrizio Saccomanni che fu praticamente ricattato dal ministro delle finanze tedesco”. Wolfgang Schäuble, il duro del Gabinetto di Angela Merkel, avrebbe intimato al collega del Belpaese che se l'Italia non avesse accettato, si sarebbe diffusa la notizia che l'Italia non accettava perché aveva il sistema bancario prossimo al fallimento e questo avrebbe significato il fallimento del sistema bancario”. Asserzione gravissima di cui il mondo politico non è sembrato preoccuparsene preso com’è a discutere della tenuta del matrimonio tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Anche un avveduto economista del calibro di Antonino Galloni, intervistato dal quotidiano “La Notizia”, non dà segni di turbamento. Alla domanda sull’eventualità che l’allora ministro dell’Economia Saccomanni potesse essere stato ricattato dalla Germania sulla questione del bail-in, risponde: “È una voce che si rincorreva già allora: si diceva tra di noi che non poteva che essere andata così”. Non soddisfatto Galloni, rincara la dose: “È sempre stato tutto un ricatto. Non è che c’erano gli italiani che volevano farsi del male. Da anni siamo stati in una posizione in cui abbiamo ceduto il passo su tutta la linea. Siamo stati per anni e anni in una posizione di sudditanza”.
Ma quale Europa si pensa di costruire se la prassi nei rapporti tra Stati “fratelli” prevede il ricorso al metodo dello sputtanamento per indurre i riottosi a ubbidire? Ora, ci si affidi al comune buon senso rispondendo a una semplicissima domanda: quanto si deve credere alla fondatezza delle reprimende che a intervalli di tempo regolari ci vengono impartite da Bruxelles? Si prenda il caso del Country Report pubblicato ieri l’altro dalla Commissione europea che dà una valutazione negativa dello stato dell’economia italiana. Ne abbiamo già parlato la scorsa settimana in occasione dell’uscita delle prime indiscrezioni sugli esiti del report. Le parole del vice-presidente della Commissione, il lettone Valdis Dombrovskis, per il quale “il danno provocato dall’incertezza del governo italiano per quanto riguarda la sua politica di bilancio ha provocato una frenata dell'economia”, sono frutto di un’analisi neutrale e corretta di un’autorità indipendente oppure sono figlie del “trattamento Schäuble”? Non è più questione di essere euroscettici ma “eurodiffidenti”. Nel senso che non ci si può fidare dei partner con i quali, in teoria, dovremmo costruire gli Stati Uniti d’Europa. Si dirà, questo è il prezzo da pagare ai grandi processi di unificazione. Accadde dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Prima di giungere alla configurazione organica degli odierni Stati Uniti d’America è stata combattuta una sanguinosa guerra civile tra gli Stati del Nord contro la Confederazione degli Stati del Sud. Ci sono stati dei vincitori e dei vinti e, soprattutto, vi è stato un lungo processo di elaborazione della ragioni del conflitto intestino.
Per fare l’Italia è occorsa una fase di guerra al termine della quale uno Stato più forte ha avuto ragione degli altri Stati sparsi lungo lo Stivale. Anche la ricomposizione del Secondo Reich, nella seconda metà dell’Ottocento, per il “cancelliere di ferro” Otto von Bismarck che l’ha intessuta non è stata una passeggiata di salute. Ma adesso è un’altra storia. L’ultima guerra che ci ha visto sconfitti, insieme alla Germania, è il Secondo conflitto mondiale. Allora perché questa subalternità dell’Italia nello scenario comune europeo? L’unica guerra che di recente abbiamo perso è quella delle regole e regolette combinata da azzeccagarbugli. È un tela di ragno nella quale siamo cascati come gonzi. Siamo stati così stupidi tutti questi anni da permettere che gli altri dicessero di noi italiani che eravamo il cancro d’Europa, quelli che campavano a sbafo degli altri, succhiando il sangue ai laboriosi Stati del Nord del continente. Qualcuno a Bruxelles si è spinto a dire che spendevamo tutti i soldi che ci venivano elargiti in donne e vino. E lo abbiamo consentito. L’assurdo è che ci siamo mostrati deboli e pentiti come se tutte le menzogne vomitateci addosso fossero vere. Altro che sindrome di Stoccolma! Gli psicanalisti dovranno aggiornare il lessico clinico e rinominare la forma acuta della malattia “sindrome italiana”. Ci sono Paesi nell’Unione europea che sopravvivono grazie ai contributi finanziari che l’Italia versa alla comunità europea e i cui rappresentanti osano dire che siamo noi il problema che mette a rischio la stabilità della casa comune. Ma chi la vuole un’Europa così? Le anime belle dell’europeismo tourt court vestono in gramaglie ogni qualvolta qualcuno in Italia osa sostenere che bisognerebbe rinegoziare i Trattati di Maastricht. Per l’Italia sarebbe una sciagura apocalittica separarsi dal carrozzone europeo, questo il loro mantra. Ma nessuno ha il coraggio di dire la verità, che senza l’Italia questa Unione europea non va da nessuna parte. In compenso, resterebbe il piccolo recinto tiranneggiato da un padrone arrogante circondato da una corte dei miracoli popolata di pezzenti che gli ronzano intorno e abbaiano a comando per assicurarsi una ciotola di carne alla fine della giornata. Ogni tanto bisognerebbe ricordare, anche con modi spicci, a Berlino e a Parigi chi siamo noi, chi sono loro e cosa non sono gli altri.
P.s.: Come di prassi, dopo le dichiarazioni del ministro sono fioccate le smentite e le ritrattazioni. Ma in politica, come nel cinema, resta “buona la prima!”.
Aggiornato il 04 marzo 2019 alle ore 10:29