La lunga ed inevitabile trasformazione che sta vivendo l’Europa contemporanea è ormai un processo irreversibile. Le cancellerie diplomatiche europee sono in continuo fermento, i mercati finanziari anche, politologi ed economisti pronti a scrivere lunghe pagine per sostenere le tesi di vincitori e vinti. Semmai ce ne fossero. E poi le prossime elezioni europee, un’attesa vissuta tra preoccupazioni, speranze e qualche probabile delusione. Ad ogni modo, il momento è storico, e le masse - nell’accezione weberiana del termine - vivono e guidano da protagonisti questo cambiamento. Una sedizione silenziosa che si è consumata per lo più nelle urne elettorali dei principali Paesi europei. L’ascesa dei partiti populisti, correlata conseguenza, altro non è, quindi, che la voce dell’insoddisfazione, un’insofferenza maturata verso le istituzioni tradizionali e dell’Unione europea. Il superamento della vecchia dicotomia fra sinistra e destra, poi, è la risposta più evidente allo stravolgimento del quadro politico e sociale di cui la “nuova Europa” dovrà tenere inevitabilmente conto.
La costante e continua crescita a sostegno dei partiti populisti è stata approfondita in una recente ricerca condotta dal The Guardian in cui si rivela come l’ascesa del populismo sia costante almeno dal 1998. Vent’anni fa, infatti, i partiti populisti erano per lo più una forza marginale, rappresentavano appena il 7 per cento dei voti nel Vecchio Continente; nelle più recenti elezioni nazionali, un voto su quattro è andato ad una formazione populista. L’ondata anti-establishment si è quindi consolidata in particolare dopo la crisi finanziaria del 2008 e dopo la crisi dei migranti in Europa del 2015. Cas Mudde, uno degli analisti politici coinvolti nell’indagine, spiega come “nel breve termine i partiti populisti rimarranno probabilmente forti e saranno persino più chiaramente radicali di destra. La domanda principale, invece, è un’altra: come risponderanno i partiti non populisti?”. Bell’interrogativo.
Ma il fenomeno non riguarda solamente l’Europa. Il Guardian, infatti, evidenzia come i populisti siano stati eletti anche in cinque delle più grandi democrazie mondiali: India, Stati Uniti, Brasile, Messico e Filippine. Non sottovalutabile inoltre il successo di “Alternative für Deutschland” in Germania, primo partito di estrema destra a entrare nel Parlamento tedesco dopo la Seconda guerra mondiale con oltre 90 seggi nel Bundestag; Lega-M5S che hanno ottenuto oltre il 50 per cento del voto popolare; “Fidesz”, in Ungheria, ha raccolto da solo il 49 per cento e i Democratici svedesi, di estrema destra, hanno ottenuto il 17,5 per cento. I populisti di sinistra, decisamente meno diffusi, hanno invece incrementato i loro voti solamente in Spagna con “Podemos” e in Francia con “La France Insoumise”.
L’indagine si conclude con un’analisi delle principali ragioni di questa crescita: la grande recessione, la crisi dei rifugiati e la trasformazione dei partiti (come “Fidesz” e “Diritto e Giustizia” in Polonia) in formazione populista. Sulla capacità dell’Ue (ormai a 27 membri) di affrontare in modo efficace queste sfide probabilmente si scriverà ancora. Ognuno con le proprie argomentazioni, ognuno con le proprie soluzioni. Ciò che non è più negabile è la partecipazione sempre più proattiva del popolo verso le scelte dei governi in relazione all’Unione europea. Ad ogni azione corrisponderà una reazione uguale e contraria. E stavolta non è politica, ma pura applicazione del terzo principio della dinamica.
Aggiornato il 23 novembre 2018 alle ore 11:36