Finanziaria: la buccia, il nocciolo e la polpa

Sulla manovra finanziaria di prossimo approdo in Parlamento verrebbe da proporre a tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, una mozione d’ordine: basta con la retorica demagogica e la guerra delle parole! Non servono scambi di accuse e di fake news, occorre un ragionamento rigoroso e pacato. Le parole possono essere pietre ma anche petardi che, fatti scoppiare al momento sbagliato, provocano sui mercati finanziari costose fiammate di disvalore del nostro Debito sovrano. I numeri, invece, hanno il pregio di non mentire e di essere quel tanto testardi da non piegarsi alle manipolazioni della propaganda partigiana.

Guardiamoli questi numeri, anzi il numero. Già, perché alla fine della fiera il pomo della discordia ha i contorni di una previsione, l’inverarsi o meno della quale segnerà il successo o la sconfitta del Governo giallo-blu. Tutto si focalizza su quell’1,5 per cento di crescita del Pil che l’Esecutivo ha stimato essere, per il 2019, la soglia di tenuta del rapporto Deficit/Pil nell’alveo dell’annunciato 2,4 per cento e, soprattutto, di flessione del Debito, come richiede Bruxelles. Una folta schiera di autorità sovranazionali, e anche domestiche, ritiene che la stima di crescita sia parecchio ottimista. Un prudenziale +0,8 per cento di Pil sarebbe stato salutato con maggiore favore. Ma il Governo non ci sta. Per l’alleanza giallo-blu restare sotto il +1 di crescita avvicina alla stagnazione economica che depaupera la comunità nazionale e fa crescere il Debito pubblico anziché abbassarlo. Di contro, gli oppositori alla manovra adducono la stima Istat sul Pil del terzo trimestre 2018, sostanzialmente fermo rispetto a quello del trimestre precedente, per ribadire che il 2019 non sarà diverso dal 2018, se non nel peggioramento di alcuni indicatori economici. Se a livello globale il ciclo della crescita rallenta, come sperare che l’Italia possa andare in controtendenza? Questa l’obiezione. La conferma arriva dai numeri del settore dell’automotive, dove, secondo quanto riporta Dario Di Vico sul Corriere della Sera, “nel mese di settembre le immatricolazioni di auto nuove paragonate all’anno prima sono crollate del 25,4%, quelle degli autocarri del 21,7%. Le vetture Fiat immatricolate sono passate da 33mila unità a sole 18.700”.

Primo punto di verità che tuttavia svela l’altra faccia del problema: se i numeri della produzione sono aumentati nell’ultimo triennio lo si deve al traino della Fiat. Si ferma la casa automobilistica, si ferma l’Italia. Così non va, è patologico continuare a mettere il destino di un Paese nella mani di una sola grande industria, che peraltro non è più italiana. Ma a contribuire alla frenata congiunturale e al crollo del tendenziale di crescita è anche la stagnazione dei consumi delle famiglie. L’Istat rileva che la voce “spesa per consumi finali sul territorio economico e all'estero delle famiglie residenti” non si è mossa tra il secondo e il terzo trimestre di quest’anno. È, dunque, ragionevole che il target primario della manovra finanziaria sia la domanda interna. Per il Governo essa deve servire da volano alla ripresa economica in sostegno all’export che decelera. Quella che si presenta come una politica finanziaria rivolta all’assistenzialismo conterrebbe invece elementi di forte stimolo al consumo di cui beneficerebbero le produzioni rivolte al mercato interno e, a cascata, il tasso di occupazione. Ma sarà sufficiente il combinato disposto delle misure anti-povertà, a cui si ascrivono il reddito e la pensione di cittadinanza, e dell’abbassamento, seppur minimo, della pressione fiscale con l’allargamento della soglia d’accesso al regime forfettario al 15 per cento d’imposta per alcune categorie imprenditoriali e professionali? No. Occorre attivare la componente della domanda aggregata relativa agli investimenti pubblici e privati. La dotazione prevista dal progetto di Bilancio è insufficiente.

Gli oppositori, in particolare del centrodestra, sostengono che soltanto la capacità di concentrare risorse sull’abbattimento shock della tassazione potrebbe rimettere in moto la macchina produttiva. Siamo sicuri che questa ricetta funzioni? Il problema è che non vi alcuna certezza sull’equazione “meno tasse = più investimenti nei settori della produzione”. Esiste una concreta possibilità che le risorse drenate dai privati grazie all’abbattimento dell’imposizione fiscale finiscano nella rendita speculativa, molto utile per la concentrazione della ricchezza ma per niente funzionale allo sviluppo complessivo del sistema economico nazionale. Da qui la necessità di correlare il contenimento della leva fiscale a condizionalità sul reinvestimento delle risorse liberate nella produzione. Il modello “Ires al 15 per cento”, previsto in Bilancio, per le aziende che assumono nuovo personale o acquistano beni strumentali è senz’altro la via giusta.

Ora, quella che si profila è una battaglia epocale tra opposte visioni di politica economica che valica i confini nazionali. Una modalità alta e virile per ingaggiare la lotta a quelli che il professor Giulio Sapelli definisce in un illuminante scritto: “Gli squilibri europei che si riflettono nelle politiche economiche fondate dell’austerità e sulla politica dell’offerta con la deflazione, i bassi tassi di profitto delle imprese industriali, i bassi salari, gli scarsi consumi”. Potrebbe essere un azzardo? Ma cosa dovrebbe fare di diverso un Governo che si proclama fautore del cambiamento radicale dello status quo? Lega e Cinque Stelle, benché concorrenti, sono stati votati dalla maggioranza degli italiani per realizzare le riforme successivamente trasfuse nel “Contratto di governo”. Hanno quindi il dovere politico di provarci, assumendosene la responsabilità. Questa, piaccia o no, è la democrazia che, come notava Winston Churchill, “è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”.

Aggiornato il 02 novembre 2018 alle ore 10:43