La previdenza degli asini

Mentre il Governo dei miracoli si ostina nel suo folle tentativo di far aumentare la ricchezza del Paese a colpi di spesa corrente, è uscito un agghiacciante report, basato su aggiornati dati Istat, dell’Istituto studi e ricerca Carlo Cattaneo.

In sostanza, da questo studio emerge che nel 2018, per la prima volta dall’Unità d’Italia, il numero degli individui sopra i sessant’anni ha superato quello degli under trenta: i primi rappresentano il 28,7 per cento della popolazione, contro il 28,4 per cento dei secondi. Per comprendere l’entità demografica del fenomeno, basti ricordare che nel 1961, nel pieno del boom economico, le persone con meno di trent’anni erano il 47,5 per cento e gli ultra sessantenni appena il 13,9 per cento.

Ma non basta, sempre secondo lo stesso studio, attualmente in Italia su 100 giovani ci sono 168,7 anziani. Una proporzione quest’ultima che, a parere di molti osservatori, spiegherebbe più di qualsiasi altro sofisticato ragionamento politico il motivo per il quale si è deciso con la Legge di Bilancio, mettendo a repentaglio la sostenibilità del più oneroso sistema previdenziale d’Occidente, di smantellare la tanto bistrattata riforma Fornero.

Per dirla in parole molto semplici, siamo il Paese più vecchio d’Europa, con il più basso livello di produttività per ora lavorata e con un tasso di occupazione di 10 punti inferiore alla media europea. Ebbene, di fronte a questa catastrofe scritta con numeri di piombo, anziché muoversi necessariamente nella direzione di un graduale alleggerimento del fardello pensionistico, i giocatori d’azzardo dell’Esecutivo giallo-verde hanno deciso di far saltare il banco dell’Inps attraverso la contestatissima quota cento per chi ha compiuto sessantadue anni.

Trattasi chiaramente di una bieca mossa elettoralistica, al pari del cosiddetto reddito di cittadinanza, che certamente incontrerà il favore della maggioranza di una popolazione sempre più confusa e incline a considerare la sostenibilità del nostro colossale debito pubblico una noiosa variabile indipendente. E dunque è scontato che ciò determini una ulteriore crescita dei consensi per i due partiti al Governo, almeno nel breve periodo.

Il problema però è che anche i mercati, ossia coloro ai quali dovremmo vendere i nostri titoli del Tesoro, votano e votano con i piedi, com’è noto. Nel senso che, come dimostra l’aumento preoccupante dello spread, man mano che si definisce chiaramente lo spirito elettoralistico della manovra a tutto deficit dei maghi al potere, si sta materializzando lo spettro di una crisi di sfiducia sull’Italia e il suo debito. E in questi casi, cari Matteo Salvini e Luigi Di Maio, con gli slogan un tanto al chilo e le bubbole dei vari moltiplicatori keynesiani a uso e consumo dei gonzi non si va molto lontano. Per convincere gli investitori non bastano le chiacchiere economico-finanziarie apprese all’università del bar dello sport.

Aggiornato il 29 ottobre 2018 alle ore 10:38