Le scomode verità della Nota di Aggiornamento al Def

La Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza non piace a Bruxelles e alle opposizioni parlamentari interne. I contrari per ragioni di concorrenza sul mercato elettorale è ovvio che dicano tutto il male possibile delle misure di finanza pubblica sulle quali la maggioranza penta-leghista intende scommettere. Inaccettabile è invece il comportamento delle autorità comunitarie europee. Il trio Juncker-Moscovici-Dombrovskis si è auto-delegittimato nel ruolo di controllore dei nostri conti pubblici nel momento in cui ha mischiato valutazioni di carattere tecnico sulla qualità del Def italiano con considerazioni di natura politico-partitica sulla necessità di fronteggiare l’ondata populistica che ha preso piede in Italia. Che credibilità può avere un arbitro che dichiara di voler sconfiggere una delle squadre in campo? È come se un “fischietto” nostrano concedesse un discutibile calcio di rigore contro la Juventus e un ancor più inspiegabile cartellino giallo a Cristiano Ronaldo e poi, a microfoni aperti, dichiarasse: “Dobbiamo unirci e fare di tutto per impedire alla Juve di vincere il campionato”. Ne sarebbe screditato l’intero mondo del calcio. Fuori di metafora, è ciò che sta capitando tra Roma e Bruxelles. Per questa ragione, è opportuno che si ignorino le trame degli eurocrati e si guardi alla reazione dei mercati perché è l’unica cosa che conta.

Ora, come giudicare l’azione di governo sui conti pubblici? La valutazione è alquanto impegnativa. Le obiezioni più forti riguardano le misure di lotta alla povertà e la parziale revisione della Legge Fornero con l’abbassamento della soglia pensionistica. Il timore è che con l’aumento della spesa in deficit si demolisca la stabilità dei conti pubblici. Giusto! Ma non esaustivo. Bisogna considerare due fattori d’incontrovertibile negatività. Il primo. Nell’arco temporale 2012-2017 sono state implementate misure di contenimento della spesa pubblica che hanno impoverito ampie fasce della popolazione, in particolare i ceti produttivi tradizionali, ma il debito pubblico è ugualmente cresciuto. Secondo. Il Prodotto Interno Lordo è aumentato ma non al ritmo medio di crescita del resto dell’Unione europea. L’espansione rallentata è stata condizionata dalla stagnazione del mercato interno a fronte delle buone performances dell’export.

Ciò detto, a preoccupare i governanti Giallo-blu sono stati i segnali di rallentamento del ciclo economico internazionale destinati a ripercuotersi in negativo sulla capacità espansiva dell’export italiano. Gli indicatori congiunturali richiamati nel Nota di Aggiornamento al Def segnalano che il tasso di crescita annualizzato del Pil, attestato all’1,6 per cento nel 2017, scende quest’anno allo 0,9 per cento, abbassando la stima per il 2108 che era stata del 1,5 per cento all’ 1,2 per cento. Pur registrando un andamento del deflatore in linea con la previsione all’1,3 per cento, la stima del Pil nominale è crollata dall’iniziale 2,9 per cento al 2,5 per cento.

Ciò vuol dire che Luigi Di Maio e Matteo Salvini temono di restare con il cerino acceso tra le mani per un errore strategico compiuto dai precedenti Esecutivi di centrosinistra che si sono adagiati sui buoni risultati del nostro export senza preoccuparsi minimamente della condizione di stagnazione della domanda interna. Che fare? Per i giallo-blu la soluzione sta nel risveglio della domanda aggregata che incrocia i consumi, gli investimenti e la spesa pubblica. Soltanto se si stimolano i consumi, questo il ragionamento, la produzione ricomincia a muoversi generando valore aggiunto. Ma per farlo è necessario pompare liquidità nel sistema. Cioè, venga messo denaro nelle tasche di quegli italiani, poveri o incapienti, che sono naturalmente portati ad acquistare beni primari e di largo consumo. Da qui, la decisione di sfruttare le potenzialità incrementali della domanda aggregata finanziando misure quali il Reddito di cittadinanza e la Flat tax per le “Partite Iva” e per tipologie d’impresa con fatturati inferiori a 65mila euro, nell’auspicio che esse agiscano da moltiplicatori del reddito nazionale. Si dirà, i soldi non ci sono per cui bisogna procurarseli a debito. Vero. Ma chiediamoci quale sia l’alternativa. Immaginiamo, per ipotesi, che il Governo giallo-blu attui la riduzione programmata degli obiettivi di Deficit, concordata con l’Unione europea. Per il 2019, la manovra finanziaria dovrebbe restare al di sotto del 1,6 per cento del rapporto Deficit/Pil per tenere il Deficit strutturale entro lo 0,5 per cento. Invece, con un indebitamento netto nominale al 2,4 per cento del PIL nel 2019, l’indebitamento netto strutturale si incrementa ad uno 0,8 per cento che ci allontana dall’obiettivo del pareggio di Bilancio.

Tradotto in soldoni, osservando pedissequamente le regole europee non vi sarebbe un centesimo bucato per fare nulla in più del disinnesco delle clausole di salvaguardia che, se azionate, porterebbe all’aumento dell’Iva con effetti depressivi incontrollabili sul già stagnante mercato interno e il finanziamento delle cosiddette spese indifferibili. Un tale quadro di bilancio farebbe precipitare il Pil fino al livello di guardia della recessione con conseguente deterioramento del Debito. Allora sì che si materializzerebbe il default evocato a sproposito in queste ore. Qualche voce dell’opposizione vorrebbe che gli obiettivi di deficit venissero indirizzati alla riduzione delle tasse alle imprese e del costo del lavoro. Particolare di dettaglio: potenziare l’offerta in calo o in assenza di domanda non serve a nulla. Le imprese producono se c’è qualcuno che ne compra i prodotti. Se all’estero il ciclo economico sta rallentando sta a noi italiani convincerci a stimolare la crescita interna spendendo di più in consumi. L’odierna manovra economica è entrata in un looping dal quale conta di uscire scommettendo sulla strada alternativa dell’espansione a debito. Funzionerà? Lo scopriremo vivendo.

Aggiornato il 08 ottobre 2018 alle ore 11:51