Il deficit di Pulcinella

Sul tema caldissimo della discussa nota di aggiornamento al Def (Documento di Economia e Finanza), credo che sia cosa buona e giusta sottolineare alcuni aspetti essenziali in merito al previsto deficit triennale del 2,4 per cento. Una misura, quest’ultima, che a molti sedicenti liberali non sembra particolarmente rilevante, sulla base del fatto che risulta apparentemente in linea con il disavanzo degli ultimi governi.

In realtà, trattasi di un’argomentazione piuttosto auto-consolatoria e che non tiene nella dovuta considerazione tutta una serie di elementi circostanziali. Tra questi metterei al primo posto quello relativo alla fine da molto tempo annunciata del cosiddetto Quantitative easing di Mario Draghi. Come sanno pure i sassi, infatti, a partire dal primo gennaio del 2019 la Banca centrale europea cesserà quasi del tutto l’acquisto dei titoli del debito pubblico dei Paesi appartenenti alla zona euro, lasciando quindi l’Italia senza alcuna protezione nei riguardi dei mercati finanziari. Ed è per questo, e qui veniamo al secondo punto, che in precedenza ci si era accordati con l’Europa per un veloce rientro del deficit, riportando il nostro colossale debito sovrano in una traiettoria di accettabile sostenibilità. Un accordo che, da uno 0,8 per cento iniziale, era lievitato all’1,6 per cento, grazie alla delicata negoziazione con Bruxelles portata avanti fino alla sua clamorosa sconfessione del 27 settembre dal ministro dell’Economia, Giovanni Tria.

Inoltre, da quanto si deduce soprattutto dalle altisonanti dichiarazioni degli esponenti grillini, dato che ancora nessun numero ufficiale è stato scritto, il previsto deficit del 2,4 per cento si fonda su una ipotesi di crescita del tutto irrealistica, almeno secondo le stime più autorevoli, che per il ministro Paolo Savona potrebbe raggiungere già nel 2019 il 2 per cento.

Ora, questa più che probabile sopravvalutazione dei magici moltiplicatori keynesiani teorizzati dai geni del Governo, unita ai maggiori costi derivanti dal preoccupante aumento dello spread e all’effetto recessivo che ciò determina nel sistema economico, non può che generare un grande scetticismo circa l’entità reale del medesimo deficit il quale, a mio modesto parere, viste le premesse a consuntivo sfonderà alla grande il muro del 3 per cento.

Infine, nell’analisi di codesto disavanzo molto ballerino, non possiamo esimerci dal rilevare, al pari di chi è chiamato a prestarci tutti i giorni i suoi quattrini o quelli dei suoi clienti, che esso sembra essere formato in buona parte da spesa corrente, tra anticipi pensionistici e sussidi assistenziali, la quale non rappresenta certamente un buon viatico per rassicurare i mercati finanziari in merito alla tenuta dei nostri sempre più traballanti conti pubblici.

D’altro canto, come considerazione di buon senso finale, se ai precedenti Governi è stato consentito, anche in virtù di una favorevole congiuntura economica mondiale, di raschiare il fondo del barile con un livello di deficit che personalmente ho considerato assolutamente eccessivo, non mi sembra una gran mossa quella di sfondarlo – il medesimo barile – con nuove spese improduttive e prive di copertura, per di più in un momento in cui si preannuncia un certo rallentamento del ciclo economico.

Aggiornato il 04 ottobre 2018 alle ore 10:21