Forza Italia: Viva la revolución! (liberale)

Nel suo editoriale di ieri, Arturo Diaconale dice il vero. L’odierno corso di Forza Italia rischia di perdersi. L’ansia da prestazione iper-europeista della classe dirigente sta travolgendo il nucleo originario dell’identità politica berlusconiana. La furia iconoclasta delle vecchie e nuove leve forziste nello scagliarsi contro l’odierno Esecutivo le sta portando ad appiattirsi su posizioni che, come scrive il Direttore, si caratterizzano “nella difesa di una linea dell’austerità che si identifica con l’Europa dei poteri forti continentali politici e finanziari interessati a riservare al nostro Paese la stessa sorte della Grecia”. L’esempio delle giaculatorie contro le misure annunciate a sostegno della lotta alle povertà è illuminante. L’opposizione al loro inserimento nella manovra finanziaria contraddice palesemente l’azione politica di Silvio Berlusconi che, sulla promessa di portare le pensioni minime non a 780 euro come vorrebbe Luigi Di Maio ma a mille euro per tutti, ha centrato l’ultima campagna elettorale.

Davvero qualcuno in Forza Italia pensa che gli italiani abbiano la memoria di un insetto? La domanda che sorge spontanea nel cittadino è: ci prendevano in giro prima promettendo qualcosa che sapevano, una volta al governo, di non realizzare oppure ci prendono in giro adesso quando dicono che spendere denari per la povera gente non è in linea con i parametri europei e dello spread? Nell’incertezza, qualsiasi persona di buon senso si guarderebbe bene dal vergare, in cabina elettorale, il simbolo con il tricolore che garrisce al vento sopra la scritta “Berlusconi presidente”. Quello della lotta alla povertà non è l’unico episodio di distonia funzionale che ha riguardato Forza Italia. Altri ve ne sono.

La verità è che la classe dirigente forzista sta ripiegando pericolosamente verso posizioni filorenziane proprio nel momento in cui il Partito Democratico, già in crisi esistenziale di suo, sta riscoprendo le radici vetero-socialiste. Proprio ora che i “dem” hanno buttato al fiume il modello “Tony Blair”, improntato all’adesione acritica all’iperliberismo e alla finanziarizzazione dell’economia, per ripescare dal modernariato dell’usato niente affatto sicuro Jeremy Corbyn. I forzisti, accecati dalla paura di scomparire dai radar, hanno innestato la retromarcia per tornare al Nazareno non valutando la concreta possibilità che un Nazareno su cui convergere non ci sia più. Intanto, lo storico alleato leghista non se ne sta con le mani in mano, osserva e mette in conto.

Se mai si dovesse tornare alle urne prima del previsto, cosa al momento assai improbabile, Matteo Salvini, nella stipula del patto di coalizione, imporrà ai vecchi sodali condizioni contrattuali molto più stringenti rispetto al passato. E i forzisti che saranno sopravvissuti (politicamente parlando), pur di salvare la cadrega e consentirsi un altro giro di poltrona sottoscriveranno la qualunque. Eccome se firmeranno. D’altro canto, è già successo. La ricordate la querelle sulla nomina del presidente della Rai? E com’è finita? Non aggiungiamo altro per carità di patria. Ma chi per un quarto di secolo si è votato alla causa della rivoluzione liberale battendosi per il berlusconismo, soprattutto in tempi in cui dirsi berlusconiano non era la cosa più salutare al mondo, ha tutto il diritto di sentirsi deluso e preoccupato per la deriva presa dai dirigenti forzisti. Non si vorrebbe che una pur emozionante storia che non è appartenuta ad una sola persona ma un popolo finisse in un lento, inesorabile processo di consunzione.

Tra le componenti costitutive di “Forza Italia” ve n’è stata una originaria della destra politica, formata da una generazione di individui cresciuti nel mito virile della via eroica. Probabilmente la nuova leva ignora quanti fossero, negli anni Novanta, ad assistere alle filippiche del “Cav” contro i comunisti con la bandiera della libertà in una mano e i racconti di guerra di Ernst Jünger nell’altra. Benché invecchiati e bolsi, con troppi strati di adipe accumulati, quei bizzarri fedelissimi di un’idea in sé rivoluzionaria continuano a ritenere che sia più onorevole una morte sul campo di battaglia, arma in pugno, piuttosto che spegnersi in una lenta agonia costellata di cateteri vescicali e di piaghe da decubito. Ovvio che è una metafora. Non ci sono barricate, che non siano simboliche, sulle quali appollaiarsi imbracciando lo schioppo. Tuttavia, se il vecchio leone, magari scrollandosi di dosso le avide beghine che gli alitano sul collo, si convincesse a guidare in un magnifico, disperante gesto di lucida follia, un ultimo assalto al “Palazzo” sotto le sdrucite ma linde bandiere della rivoluzione liberale scoprirebbe al suo fianco molti più combattenti di quanti lui stesso possa immaginare. E il manifesto-proposta lanciato da “l’Opinione”? Prendetelo come una chiamata alle armi, una coscrizione volontaria per chi ancora ci crede. Un messaggio infilato in una bottiglia e calato in mare perché da qualche parte qualcuno lo raccolga. Prendetelo come fosse un verso di una canzone del grande Vasco Rossi: “Forse ma forse ma sì”.

Aggiornato il 02 ottobre 2018 alle ore 11:36