Oggi sono previsti vertice di maggioranza e, a ruota, Consiglio dei ministri che si occuperanno della Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza. Ed è guerra delle parole che dà sfogo all’amore, tutto italico, per il melodramma. Luigi Di Maio, per un verso, e il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, per l’altro, non fanno eccezione alla regola della teatralizzazione dello scontro politico. Sembra di rivivere l’epopea di Alamo, con un pugno di burocrati “eroi” che dal Mef difendono il fortino dei conti pubblici dall’assalto all’arma bianca degli eserciti invasori della rivoluzione populista. È però vero che la visione dei Cinque Stelle confermi una diversità antropologica prima che ideale da sostenere a dispetto di ogni ragion pratica. C’è un noi-contro-loro che serve alla narrazione grillina per spiegare al proprio elettorato la portata dello scontro in atto sui numeri del deficit rispetto al Pil del 2019.
Di Maio sa bene che se non dovesse riuscire a realizzare almeno una parte delle promesse fatte in campagna elettorale, la larga fiducia accordatagli dagli italiani svanirebbe come neve al sole. Da qui la scelta di procedere in modalità rullo compressore contro tutti coloro che mostrano, se non aperta ostilità, un ragionato tentennamento sulle ricette che egli propone. Il capo dei Cinque Stelle se la prende in particolare con le “teste d’uovo” del ministero dell’Economia e delle Finanze che, a suo dire, vorrebbero sabotare il totem grillino del reddito di cittadinanza. Non è una novità che i governanti in difficoltà diventino paranoici. Si tratta della sindrome da accerchiamento che sta corrodendo il sistema nervoso del giovane vice-premier pentastellato.
Di Maio va ripetendo ossessivamente che andare in deficit del 2,6 per cento non è un tabù. Come finirà? Verosimilmente la quadra sarà trovata dal ministro dell’Economia scavallando di un decimale o due la soglia psicologica del 2 per cento. Giovanni Tria ha chiarissimo il doppio obiettivo che la manovra finanziaria deve garantire. Da un lato, c’è la tenuta dei conti pubblici e, dall’altro, la stabilità del quadro politico. Già, perché ciò che agita in queste ore i massimi livelli istituzionali non è soltanto la preoccupazione di evitare una guerra con i guardiani europei dei nostri conti pubblici che spaventerebbe i mercati, ma anche di non precipitare il Paese in una crisi parlamentare al buio per la caduta improvvisa di un governo che comunque gode del consenso della maggioranza degli italiani. Cosa accadrebbe se domani Di Maio si presentasse agli italiani dicendo: andiamo via perché i poteri forti ci hanno materialmente impedito di fare il bene del popolo? Quale soluzione “tecnica” il presidente della Repubblica potrebbe adottare a legge di bilancio aperta senza rischiare la sollevazione popolare? Il “golpe” che, nel 2011, consegnò l’Italia al “commissario” Mario Monti fu facilitato dall’efficace lavoro demolitorio che i media fecero riguardo al Governo di Silvio Berlusconi, ingiustamente accusato di essere il responsabile unico della cosiddetta crisi dello spread. Allora l’opinione pubblica venne convinta che l’avvento di Mario Monti a Palazzo Chigi sarebbe stato l’evento provvidenziale atteso dagli italiani per la loro salvezza.
Oggi scaricare la colpa dell’insuccesso sui grillini non funzionerebbe per la banale ragione che il debito sovrano italiano, al momento, non è stato messo sott’attacco dai mercati finanziari che, anche all’ultima asta del 30 agosto scorso, hanno mantenuto la domanda d’acquisto dei nostri Btp a 10 anni di 1,37 volte superiore all’offerta. Ecco perché una soluzione di compromesso, che metta insieme le complessive ragioni della maggioranza parlamentare e quelle puntuali e fondate dei tecnici che lavorano sulle coperture finanziarie ai capitoli di spesa implementati, verrà trovata. E sarà onorevole per tutti. Politica e burocrazia, nessuno perderà la faccia. Resta, però, da verificare se le iniziative finanziate produrranno gli effetti desiderati. Il Governo chiede a se stesso di rilanciare la crescita con un calo netto della tassazione e la ripresa degli investimenti pubblici e, contestualmente, di abolire la povertà. La sensazione è che sia stata messa troppa carne al fuoco tutta insieme. Basterà sforare il 2 per cento del rapporto Deficit/Pil per avvicinare i risultati attesi? Non si tratta di tifare o gufare. La sorte della nazione non può essere ridotta a una giocata tra squadre avversarie. Il “prima gli italiani” deve valere anche, e soprattutto, rispetto agli interessi di bottega dei partiti.
Tuttavia, ciò che ci rende dubbiosi sugli esiti finali del negoziato è il fatto che i Cinque Stelle, di là dalle invettive “casaliniane” contro il muro di gomma della burocrazia ministeriale che bloccherebbe il cambiamento, sono cascati nella trappola di ragionare di Legge di Bilancio partendo dai numeri e non dagli obiettivi fissati. La polemica sui decimali da sforare in deficit, montata da Di Maio e censurata come perniciosa dal Governatore della Bce, Mario Draghi, ha oscurato la “mission” che il Governo giallo-blu si è data. Se si fosse discusso di quale Italia consegnare alle future generazioni, anche la tensione polemica, molto mediatica, sul rispetto dei parametri europei sarebbe calata di tono. Ancora una volta, il serpente è stato afferrato per la coda e non bloccato dalla testa. Per inciso, scientemente non abbiamo citato la Lega. Il sospetto è che Matteo Salvini, anche sui conti, stia giocando una partita tutta sua. Ma questa è un’altra storia.
Aggiornato il 28 settembre 2018 alle ore 11:42