La lunga marcia verso il nulla

Non sembra poi così difficile scorgere la traiettoria verso cui si sta dirigendo il sedicente “Governo del cambiamento”. Una traiettoria che, depurata dall’impressionante massa di altisonanti promesse (l’ultima in ordine di tempo è quella solenne, pronunciata da Luigi Di Maio all’assemblea di Confcommercio, di bloccare le costose clausole di salvaguardia all’interno di un programma di per sé ampiamente insostenibile) che i principali attori di questo teatrino continuano imperterriti a distribuire con grande generosità, non può che condurre il sistema Paese verso un oscuro e inquietante approdo.

Bene che vada, è possibile aspettarsi una sorta di stallo sulle cose concrete determinato sia da un contratto politico completamente irrealizzabile nei suoi punti salienti, e sia dai veti contrapposti che Lega e Movimento 5 Stelle sembrano destinati a scambiarsi, nel vano tentativo di orientare l’azione dell’Esecutivo verso i desiderata del proprio elettorato. In tal senso, al di là di qualche simbolico provvedimento, nulla di quanto promesso in tema di tasse, di pensioni e di assistenzialismo si riuscirà mai a realizzare all’interno della stringente cornice di realtà nella quale, piaccia o non piaccia, si trova inserita l’Italia, a meno di non compiere tutta una serie di forsennate operazioni in deficit che comporterebbero la catastrofica conseguenza di portarci fuori dall’Euro nel giro di poche settimane.

Ma anche se si replicasse a livello nazionale il nullismo politico e amministrativo della Giunta Raggi – quest’ultima connotata da immobilismo tremens – i danni potrebbero risultare fatali, soprattutto in considerazione delle fosche nubi che già da tempo si stanno addensando sopra di noi, a cominciare dalla fine annunciata del Quantitative easing di Mario Draghi e dalla sua sostituzione alla presidenza della Banca centrale europea, prevista nell’ottobre del 2019, con un esponente tedesco o, in subordine, di una figura gradita ai Paesi nordici.

Dunque, senza l’ombrello salvifico della Bce e alle prese con un rallentamento dell’economia che si fa sempre più probabile – come dimostra il repentino calo dei consumi registrato dall’Istat ad aprile – i mercati finanziari potrebbero reagire molto violentemente nei confronti dell’Italia, una volta che si fosse preso atto della totale incapacità di adottare le necessarie misure d’emergenza da parte dell’attuale maggioranza di chiacchieroni seriali.

Sotto questo profilo, la preoccupante risalita dello spread di questi ultimi giorni, malgrado il successo oltre le aspettative del primo voto di fiducia del Governo Conte nei due rami del Parlamento, segnala la grande cautela – per non dire altro – con cui gli investitori interni ed esteri guardano al nuovo corso politico impresso dai populisti al potere. Un nuovo corso in cui, in estrema sintesi, si ribadisce quanto promesso agli italiani da leghisti e grillini in campagna elettorale: meno tasse, più spesa pubblica e più pensioni per tutti. In pratica si tratterebbe della realizzazione concreta di un famoso detto espresso a fine Ottocento da Ferdinando Martini, scrittore e politico fiorentino che governò l’Eritrea dopo la terribile disfatta di Adua: “Chi dice che gli italiani non sanno quello che vogliono? Su certi punti, anzi, siamo irremovibili. Vogliamo la grandezza senza spese, le economie senza i sacrifici e la guerra senza i morti. Il disegno è stupendo: forse è difficile da effettuare”.

Fatte le debite proporzioni coi tempi attuali, mi sembra che analogo paradigma possa essere tranquillamente applicato al surreale velleitarismo che continua a gonfiare le vele di un governo e di una maggioranza che non cessa di creare false aspettative nel Paese. Un velleitarismo irresponsabile che si fa beffe delle grandi fragilità italiane, a cominciare dalla precaria sostenibilità del nostro colossale debito pubblico, e che è tuttavia destinato a trovare il suo naturale e invalicabile limite nella fiducia dei mercati finanziari. Fiducia la quale si basa su fatti concreti, come ad esempio una corretta disciplina di bilancio, e che una volta persa non la si può certo riconquistare a colpi di slogan e propaganda.

A margine, mentre scrivo lo spread sta salendo ancora, con il Btp decennale che rende intorno al 3,10 per cento (più del doppio rispetto a quello spagnolo) e, cosa molto significativa, i titoli a nove mesi salgono a tassi maggiori rispetto agli analoghi Bot greci. Evidentemente chi ci compra il debito pubblico non mostra molta fiducia nei riguardi del cambiamento giallo-verde.

Aggiornato il 11 giugno 2018 alle ore 11:49