Dall’Istat la foto di un Paese vecchio

La politica affascina, ma distrae. La pur sacrosanta apprensione per chi sarà il prossimo capo del governo rischia di fare ombra alla realtà che nel frattempo incalza. Come ci ricorda chi, per statuto, è chiamata a fotografarla.

È di ieri la presentazione, presso la Sala della Regina di Palazzo Montecitorio, del Rapporto annuale 2018 dell’Istat sulla situazione del Paese. Si tratta di un quadro tracciato in chiaroscuro che non ci lascia affatto tranquilli. Se la ripresa economica tende a consolidarsi, benché a livelli inferiori a quelli della media degli altri Paesi europei, il campanello d’allarme, per il terzo anno consecutivo, suona sui numeri della popolazione. È la demografia l’anello debole di questo tempo storico della società italiana. Siamo un Paese che invecchia. Se si prosegue su questa china, ci vorranno decenni, forse più, ma accadrà che ci estingueremo. Si dirà: nella storia è capitato a tanti di scomparire dalla faccia terra. Come ai dinosauri. Perché allora dovremmo prendercela tanto se un giorno anche quella italiana sarà tra le etnie estinte? Se fossimo meno ignoranti di quel che mostriamo di essere capiremmo che probabilmente a noi tocca un surplus d’impegno a restare vivi come comunità che altri potrebbero anche non concedersi. Esiste una cultura ultra-millenaria che fa capo alla nostra tradizione che non può disperdersi nel nulla ma che domanda di essere conservata e tramandata, visto che con essa è stata costruita un’intera civiltà. Propriamente quella occidentale, di cui si fa un gran parlare quando si tratta di apprezzarne gli agi che ci ha permesso ma della quale poco o nulla interessa sapere sul come sia nata e come possa essere tramandata. Ma restiamo ai numeri dell’Istat.

Al 1 gennaio 2018 siamo in 60,5 milioni. Di questi, 5,6 milioni sono stranieri, cioè l’8,4 per cento della popolazione residente. Ci sono 100mila persone in meno rispetto all’anno precedente e la conferma del trend negativo per il terzo anno consecutivo. Diminuiscono le nascite. Dalle 577mila del 2008 siamo passati alle 464mila del 2017. Perché? Secondo l’Istat tra le cause vi è una netta diminuzione della propensione a procreare o, quanto meno, a ritardare la data della nascita del primo figlio. L’età media del primo concepimento è cresciuta da 26 anni del 1980 a 31 anni del 2016. Ci siamo forse impigriti? No, semplicemente subiamo gli effetti profondi della crisi economica che ci ha devastato. Come si può legittimamente chiedere a qualcuno d’imbarcarsi nell’esperienza della paternità o della maternità se lo Stato non gli garantisce alcune certezze vitali sulle quali costruire un futuro familiare solido nel quale accogliere e crescere i nuovi nati? Nessuna meraviglia dunque che vi sia calo della natalità. Fatto sta che l’equilibrio demografico è completamente saltato.

Oggi abbiamo in Italia, per ogni 100 giovani sotto i 14 anni, 170 over 65. Come se non bastasse si conferma il saldo negativo nel rapporto migratorio: per 337mila stranieri che si iscrivono all’anagrafe vi sono 153mila italiani, per lo più giovani, che emigrano all’estero. Il problema va esaminato nella sua stretta correlazione con i dati sul mercato del lavoro. Nel 2017 gli occupati hanno superato i 23milioni, con un incremento di 265mila unità rispetto al 2016 (+ 1,2per cento). Sarebbe confortante se non fosse che una parte consistente degli occupati gode di contratti di lavoro a termine breve, se non brevissimo. Il che si traduce in una sostanziale precarizzazione del lavoro che non aiuta, soprattutto nei giovani, a sviluppare quella propensione alla procreazione che tanto servirebbe al Paese. Per inciso, se il 58 per cento sembra un buon dato non dimentichiamo che resta comunque di 9 punti sotto la media europea. Poi ci sono i disoccupati che continuano ad essere troppi: 2,9milioni nel 2017, con un tasso dell’11,2 per cento e una disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno che resta un autentico buco nero, 34,7 per cento contro la media europea ferma al 16,8 per cento. Ma l’Istat ci informa che è anche cresciuta la povertà assoluta che colpisce il 6,9 per cento delle famiglie e l’8,3 per cento delle persone. Parliamo, in termini assoluti, di 1,8milioni di famiglie e di 5milioni di individui. Ribadiamolo a beneficio di chi filosofeggia sui massimi sistemi, avendo la bisaccia piena, ma perdendo di vista la realtà: per povertà assoluta s’intende la condizione di chi, famiglia o individuo, non è in grado di produrre reddito sufficiente a garantirsi un tetto sicuro, un’alimentazione giornaliera idonea alla sopravvivenza, a curarsi adeguatamente e, in generale, ad avere la possibilità di programmare il proprio futuro.

Quest’anno la ricerca Istat si è concentrata sullo studio delle reti di relazione che dovrebbero supportare l’esistenza di ognuno di noi. E cosa ha scoperto? Che ben 3milioni di persone hanno dichiarato di non avere alcuna rete di relazione attivata, né in famiglia né tra quelle di sostegno. Con la conseguenza che cresce il senso di isolamento sociale visto che tra gli over 55 diminuisce fortemente la percezione del numero delle persone sulle quali contare in caso di bisogno. Non siamo messi bene. Bisogna al più presto invertire il trend. Ma come? Non certo con gli interventi spot messi in campo dai governi del centrosinistra. Non certo con le mance da 1.920 euro date ai genitori per figlio fino al terzo anno di vita, quando un’indagine della Federconsumatori ha stabilito che mantenere un bebè costa mediamente ai genitori 8.400 euro all’anno. A giorni probabilmente ci sarà un nuovo governo. Vedremo se saprà implementare quegli interventi strutturali, sistemici e culturali che servono per riempire quelle culle che oggi restano drammaticamente vuote.

Aggiornato il 17 maggio 2018 alle ore 12:06