La settimana decisiva per la formazione del nuovo governo si apre con Luigi Di Maio che prova a sparigliare il centrodestra.
Il leader pentastellato si dice pronto a sacrificare se stesso, o meglio la sua ambizione a fare il premier, per favorire l’accordo con Matteo Salvini. Sembrerebbe un gesto eroico, ma no lo è. E neppure disperato. Di Maio ha fatto i suoi conti. Comunque li abbia girati e rivoltati il risultato non è cambiato: nelle condizioni date non sarà lui alla guida del governo che verrà. Se verrà. Da qui l’annuncio del passo indietro. Che equivale a una fake news perché nessuno può promettere ad altri ciò che non ha. E Di Maio la premiership non l’ha nei numeri e non l’ha nella sostanza poco fluida della sua politica, infarcita di veti e discriminanti verso i potenziali interlocutori. Comunque la sua sortita è servita ad agitare le acque nel centrodestra facendo riemergere tentazioni che sembravano superate.
In particolare, Matteo Salvini non vorrebbe perdere l’occasione di vedere le carte in mano ai Cinque Stelle. Ma niente è gratis e la fiche d’apertura del gioco ha un costo particolarmente esoso. Si tratterebbe per Salvini di distruggere la coalizione che lo ha reso vincitore. Una libra di carne che mai l’elettorato di centrodestra gli perdonerebbe di aver pagato per soddisfare la sua pur legittima ambizione. E poi, perché forzare la mano del destino? Salvini molto prima di Luigi Di Maio ha compreso che non è ancora il suo turno di battuta. Visti i risultati non sarebbe stata questa legislatura a consacrarlo alla guida del Paese. Perché l’obiettivo si concretizzi è necessario tornare dagli elettori a chiedere un maggiore consenso per puntare ad un mandato politico pieno. Ma alle urne il leghista non può andarci da solo; ha bisogno che tutto il centrodestra lo segua, Berlusconi in testa. Quindi, l’attenzione torna sul Quirinale.
Da oggi l’inquilino del “Colle” proverà a mettere in sella un governo neutrale che risponda direttamente a lui e che abbia il compito di garantire la stabilità dei conti pubblici e di rappresentare l’Italia nei delicati passaggi che stanno preparando la nuova stagione dell’Unione europea. Salvini e Di Maio un governo del genere non lo vogliono. Di più: lo temono. Un esecutivo di decantazione del clima potrebbe portare a un indebolimento del grado di fiducia degli italiani nelle due forze politiche che meglio hanno rappresentato la discontinuità con la politica del passato. Un no di Lega e Cinque Stelle a un governo tecnico equivale ad un sì a un esecutivo ponte, o balneare, che non duri oltre l’estate.
Sotto questo riguardo, Di Maio non ha torto nel dire che un ritorno alle urne ravvicinato altro non sarebbe che un ballottaggio tra i due vincitori del 4 marzo. Ballottaggio che, non previsto dalla legge elettorale vigente, sarebbe realizzato direttamente dagli italiani in quello spirito di adesione alla democrazia plebiscitaria tanto caro ai Cinque Stelle. Ma prima di sbarrare la strada ad una figura terza a Palazzo Chigi, il centrodestra aveva l’obbligo di provare a giocare la sua partita. Cioè chiedere al capo dello Stato il conferimento del mandato a formare il governo, a prescindere dalla preventiva sussistenza di numeri che assicurino la maggioranza parlamentare. Ed è ciò che ha fatto la delegazione del centrodestra questa mattina quando si è recata alle consultazioni al Quirinale, come ha confermato il capo-delegazione Matteo Salvini, al temine dell’incontro, nella rituale dichiarazione alla stampa. È assai improbabile che Mattarella accolga la richiesta. Non solo perché non ha grande stima dell’affidabilità di Matteo Salvini, in particolare sul fronte dei rapporti internazionali e della collocazione dell’Italia nello scacchiere globale, ma anche perché non intende offrire al centrodestra alcun vantaggio nella preparazione della prossima campagna elettorale qualora l’esecutivo guidato dal capo leghista fallisse l’obiettivo della fiducia in Parlamento. Eppure, il presidente della Repubblica, se lo volesse, potrebbe giocare una carta che metterebbe in seria difficoltà il centrodestra: porre alla testa del “governo del Presidente” non un tecnico riconducibile nell’immaginario collettivo ai personaggi della stagione nefasta dei “governi tecnici” alla Mario Monti, ma il Presidente del Senato, Elisabetta Casellati. In quel caso, Forza Italia sarebbe attraversata da una lacerante crisi di coscienza dovendo scegliere se sostenere una sua antica e stimata rappresentante o votarle contro per mantenere il patto con l’alleato leghista. Si tratterebbe di un ulteriore stress test al quale il centrodestra sarebbe sottoposto, suo malgrado.
La verità che inizia a trasparire in controluce è che vi sia un leitmotiv di sottofondo che accomuna forze politiche, pezzi dello Stato, ambienti dei media e circoli finanziari in contatto con le principali cancellerie europee: evitare che il centrodestra stravinca alle prossime elezioni. Per i babau dell’establishment continentale meglio un malleabilissimo Luigi Di Maio a Palazzo Chigi piuttosto che un coriaceo Matteo Salvini che ha un pessimo difetto per un politico: mantiene la parola data.
Aggiornato il 07 maggio 2018 alle ore 13:45