La premiership a Luigi Di Maio? “Dio lo vuole”. È ciò che pensano i grillini. Come non capirli. Hanno ottenuto un grande successo elettorale, è logico che pensino di avere il Paese nelle mani. Poi, però, c’è la realtà che è altra cosa.
Siamo alle prime fasi della trattativa per la formazione di un governo per cui tutto è ammesso, anche un po’ d’ingenuo massimalismo propagandistico. Nella situazione data, che è oggettivamente complicatissima, la parola chiave è “decantazione”. Si lasci posare al suolo la polvere sollevata dal sisma del 4 marzo e l’orizzonte diverrà nuovamente visibile. Non bisogna avere fretta a volere tutto e subito. È necessario attendere che i Cinque Stelle intraprendano quel processo di silente conversione da movimento protestatario anti-casta a partito inserito pienamente nelle dinamiche democratiche.
Nella storia i rapporti di forza cambiano rapidamente solo a seguito di rotture rivoluzionarie. Diversamente, le mutazioni, i cambi di rotta, i riposizionamenti strategici avvengono lentamente transitando attraverso talvolta tortuose fasi di maturazione di idee e di programmi. Bisogna dare il tempo a Di Maio di crescere e di far crescere la sua presa egemonica in un campo che è gravato da molte ipoteche del passato. La prima, la più ingombrante, è quella posta dal carisma del suo primo leader: Beppe Grillo. I suoi “Vaffa” hanno fatto breccia nel sentire popolare. Prima che li si possa ritenere archiviati il nocciolo duro movimentista dovrà elaborare l’ineluttabilità della transizione verso una forma-partito più simile a quella struttura intermedia di partecipazione democratica alla politica nazionale, incardinata nel dettato costituzionale, che ha fatto la storia repubblicana di questo Paese.
Sotto questo riguardo, l’utopia del movimento nato dal basso che avrebbe spazzato via la democrazia rappresentativa per portare la società italiana nel regno dell’espressione diretta della sovranità popolare non più intermediata dai partiti è stata già sepolta nel cimitero della vana retorica. E il discorso commemorativo al suo funerale l’ha pronunciato, per paradosso, il più movimentista di tutti: quel Roberto Fico che dallo scranno più alto di Montecitorio ha tracciato in stile da manuale il profilo di un Parlamento nel segno della migliore tradizione liberale. Altra ipoteca con la quale la nuova leadership dovrà fare i conti è quella accesa dalla ditta Casaleggio Associati sull’organizzazione pentastellata. La visione da “Grande Fratello” affidata ai misteriosi algoritmi di un software è praticabile quando vi è da controllare una setta chiusa, non quando c’è da gestire un partito di massa. Tale è un’aggregazione politica che nelle urne raccoglie il voto di quasi un elettore su tre.
Sarà inevitabile che all’interno di una forza parlamentare molto ampia prenderanno forma organizzata le differenti visioni di società e di futuro che non hanno un’unica matrice ideale, atteso che il grillismo come ideologia non possa contare sul collante dell’appartenenza ad alcuna delle grandi famiglie politiche sorte e proliferate nella storia europea. A quel punto non basterà il blog a dettare la linea al “Movimento” ma si dovrà accettare il confronto tra posizioni che assumeranno una loro evidente fisicità nei comportamenti concludenti dei singoli parlamentari Cinque Stelle.
Altra ipoteca che a Di Maio toccherà di estinguere, e al più presto, è quella detenuta dal gruppo editoriale de “Il Fatto Quotidiano” che oggi reclama una sorta di patto di sindacato nella determinazione della linea politica del Movimento. È di questi giorni la potenza di fuoco messa in atto dal gruppo di pressione per impedire che i Cinque Stelle facciano l’accordo con il centrodestra. Da Marco Travaglio in giù, basta sentirli per coglierne l’irritazione per la piega che gli eventi stanno prendendo. Non v’è dubbio che quel “con Berlusconi non m’incontro” pronunciato con enfasi da Luigi Di Maio sia stato una prima cambiale pagata alla lobby de “Il Fatto” per i servigi che ha reso al grillismo in questi anni. Ma le cambiali non sono infinite. Prima o dopo Di Maio salderà il conto affrancandosi dalla pesantissima compressione con la quale “Il Fatto” condiziona le scelte dei Cinque Stelle.
L’ultima, e più recente, ipoteca di cui Di Maio dovrà disfarsi è quella concessa, nei momenti di concitazione della campagna elettorale, ad alcuni ambienti del turbo-capitalismo finanziario a garanzia dell’affidabilità del Movimento nella preservazione dei loro interessi nella tenuta in scacco del sistema produttivo italiano. Non vi è dubbio che quei consessi poco trasparenti vedrebbero di buon occhio un affiancamento, alla premiership grillina, del Partito Democratico a fare da fideiussore di ultima istanza al mantenimento dello status quo. Più gradita ancora sarebbe la presenza di una qualificata pattuglia “dem” all’interno di una compagine ministeriale a maggioranza grillina.
D’altro canto, il “Movimento” non ha i numeri per governare da solo. Un’alleanza a sinistra ovvierebbe a questo problema ottenendo, in subordine, di tenere lontano dal ponte di comando il centrodestra a guida leghista. Il guaio è che nel Pd c’è ancora un forte Matteo Renzi a dare le carte. E con Renzi in vita (politica) non c’è accordo per un’alleanza organica di governo. L’indisponibilità del Pd costringerà Di Maio a sciogliere i patti stipulati nelle Clubhouse visitate a Londra e a Washington. Estinte tutte le ipoteche in essere, a quel punto c’è da scommettere che un governo si farà. E non sarà il governo del popolo ma dei partiti che lo rappresentano. Forza Italia compresa.
Aggiornato il 29 marzo 2018 alle ore 11:24