La vera sfida per il governo che verrà

Chiusa la partita dell’assegnazione delle presidenze delle due Camere parlamentari è cominciata la giostra della formazione del governo. In assenza di notizie certe sullo stato delle trattative, i media si sono sbizzarriti in una ridda d’ipotesi a metà strada tra la realtà e la fantasia. Delle soluzioni ipotizzate quella più gettonata resta la larga intesa tra il centrodestra a trazione salviniana e il Movimento Cinque Stelle.

Posto che in politica tutto è possibile, ci consentirete di mantenere un forte scetticismo per l’ipotesi dell’ircocervo, come l’ha definita Silvio Berlusconi. Ma tant’è. La realtà ci ha abituato a vedere crescere, in politica, le creature più mostruose e surreali. Quindi, nessuna meraviglia se dall’uovo di pasqua che romperemo la prossima domenica verrà fuori la sorpresa dell’innaturale innesto tra il solido arbusto del centrodestra e la pianta idroponica del Cinque Stelle. Qualcuno direbbe: è la Realpolitik, bellezza! Ciò che invece dovrebbe attrarre l’attenzione, più del chi è il cosa la “mostruosa creatura” di shelleyana memoria andrebbe a fare. Sembrerebbe che tutto il problema stia nell’accoppiare il cavallo di battaglia dell’uno schieramento con quello dell’altro.

In soldoni, mettere nello stesso calderone dell’azione di governo la flat tax e il reddito di cittadinanza. Ad occhio si direbbe impossibile, come mischiare il diavolo e l’acqua santa. Probabilmente, pur di tenere tutto insieme si deciderà salomonicamente di non fare né l’una né l’altra cosa. O meglio, di fare un po’ dell’una e un po’ dell’altra, giusto quel tanto per consentire a ciascun protagonista di spendere, in una prossima campagna elettorale, la carta dell’impegno mantenuto, sia pure in minima parte. Con l’inevitabile conseguenza che chi vorrà vedere il bicchiere mezzo pieno continuerà a sostenere il partito scelto lo scorso 4 marzo; chi, al contrario, constaterà che il bicchiere sia rimasto drammaticamente mezzo vuoto, nonostante le promesse elargite con generosità dai candidati, cambierà il proprio voto.

Tuttavia, ciò che sorprende del dibattito di queste ore è la marginalizzazione di quello che a nostro avviso resta il grande tema che ha segnato la svolta negli orientamenti politici degli italiani. Quel nodo si chiama Europa. Al netto della vasta gamma di programmi sciorinati, è la questione del rapporto con l’Unione europea che ha fatto la differenza. Gli elettori hanno punito pesantemente il Partito Democratico ritenendolo responsabile di un atteggiamento colpevolmente prone nei confronti dei diktat di Bruxelles. Che sia vero o meno ciò che conta è la percezione. E quella è stata incontrovertibilmente negativa. I nostri concittadini hanno vissuto con disagio, fino all’insofferenza manifesta, i governi che si sono succeduti nella scorsa legislatura perché da questi non si sono sentiti protetti dagli effetti della tenaglia che le istituzioni europee hanno stretto attorno al collo dell’Italia.

Era inevitabile che, nelle urne, dessero il voto a chi, invece, in questi anni ha tuonato contro l’Europa matrigna. Pensate che la storia delle restrizioni imposte da Bruxelles sul diametro delle vongole fosse solo una nota di colore? A fronte dei tanti “niet” sbattuti in faccia ai vari governi italiani targati centrosinistra, le insopportabili libertà che gli altri Paesi e l’Unione nel suo complesso si sono concesse ha fatto montare la rabbia popolare che si è trasformata in sfiducia al limite della rottura del patto comunitario. Non si è trattato soltanto del problema, pure gigantesco, dei flussi migratori a gestire i quali, di fatto, l’Italia è stata lasciata a sbrigarsela da sola. Anche la questione del Fondo Salva-Stati ha pesato. Come non vedere montare la protesta nel momento in cui, a fronte del fallimento di alcune banche nostrane che mettevano in ginocchio migliaia di famiglie di risparmiatori, si apprendeva che il nostro Paese era tenuto a partecipare al salvataggio delle banche tedesche e francesi, attraverso la via indiretta del Meccanismo europeo di stabilizzazione (Mes), con proprie risorse finanziarie attinte dal già insostenibile Debito pubblico? Non saranno stati i 63 miliardi di cui ha parlato Matteo Salvini, ma i quattrini versati al Fondo dal 2012, data della sua costituzione, sono stati 14 miliardi 331milioni. Almeno secondo i calcoli di Bankitalia. Si dirà: quei soldi sono prestiti che fruttano interessi. Peccato, però, che la differenza tra ciò che si ricava e ciò che si spende in più per l’accresciuto debito pubblico è di segno negativo.

L’uomo della strada, al quale l’inflessibilità della regola del bail-in ha tolto la speranza di un futuro sereno, la domanda se l’è posta: perché devo preoccuparmi degli altri con le mie tasche mentre quando tocca a me di essere aiutato scattano i divieti e l’inderogabilità delle regole?

Ora, di là dalle formule alchemiche che si sperimenteranno per trovare la quadra su un governo da dare all’Italia, resta il fatto che chi ha promesso di andare in Europa per rimettere in pari la bilancia degli equilibri tra i Paesi partner e con le governance eurocratiche lo faccia per davvero. Che sia Salvini o un suo sosia in versione soft poco importa. È sulla capacità di aggredire il problema-principe che si chiama Europa che “si parrà la nobilitate” della nuova classe di governo. Questa è la sfida vera e non serve a nulla fingere che non sia così.

Aggiornato il 27 marzo 2018 alle ore 12:30