Nicolas Sarkozy, ex presidente della Repubblica francese, è in stato di fermo presso la sede della polizia di Nanterre per rispondere di un’accusa gravissima: aver ricevuto finanziamenti illeciti dalla Libia di Mu’ammar Gheddafi allo scopo di pagarsi la campagna elettorale per le presidenziali nel 2007. Qualcuno in Italia e all’estero ha voluto vedere nell’evoluzione della vicenda giudiziaria del discusso politico transalpino una sorta di nemesi storica.
Una rivincita che il defunto dittatore libico si sarebbe concesso dall’oltretomba nell’assistere alla rovina politica e personale del “traditore” francese. Secondo le ricostruzioni giornalistiche Sarkozy, avendo preso denari dal satrapo nordafricano, ne avrebbe ordinato la soppressione fisica, nel 2011, allo scopo di sbarazzarsi dello scomodo complice. Quindi, le bombe e i raid aerei avrebbero avuto l’obiettivo non di dare la libertà agli oppressi libici ma di cancellare le tracce dei maneggi illegali tra i due capi di Stato. Può darsi che sia andata così.
Tuttavia, non essendo nostro costume godere delle disgrazie altrui, non riusciamo a gioire di ciò che sta capitando in queste ore al francese. Benché fummo i primi, dalle colonne di questo giornale in tempi non sospetti, a denunciare la natura anti-italiana dell’aggressione alla Libia scatenata da Sarkozy con l’appoggio della Gran Bretagna di David Cameron e di quello statunitense assicurato dall’allora Segretario di Stato, la signora Hillary Clinton, non ci convince l’odierna banalizzazione nella ricostruzione delle motivazioni che portarono alla destabilizzazione del Paese nordafricano.
Come ci disgusta l’ipocrita entusiasmo manifestato da media e politici orbitanti nell’area del centrosinistra per la svolta giudiziaria francese. È sorprendente che proprio coloro che, nel 2011, fecero da sponda alla criminalizzazione dei rapporti positivi instaurati dal governo Berlusconi con la leadership di Tripoli, oggi inarchino il sopracciglio di fronte allo scandalo dei quattrini libici presumibilmente intascati da Sarkozy. Chi conserva un minimo di memoria di quelle giornate non può dimenticare le pressioni, spinte ai limiti del golpe, che a partire dal colle quirinalizio vennero esercitate per imporre al governo italiano di accodarsi all’ingiustificata missione militare anti-Gheddafi. Si invocò l’adesione obbligata ad una solidarietà europea che esisteva solo sulla carta e ad una sbilenca concezione della democrazia che avrebbe dovuto viaggiare, nelle intenzioni del presidente Usa Barack Obama, sulle ali delle primavere arabe. Un giorno o l’altro qualcuno dovrà incaricarsi di riscrivere le pagine di quei giorni bui. Raccontando tutta la verità.
Che poi, all’osso, è quella di una guerra scatenata indirettamente contro l’Italia che in quel momento particolare stava raccogliendo i frutti di una politica intelligente di riavvicinamento al discutibile protagonista libico. La saldatura degli interessi economici e petroliferi italiani con quelli finanziari e geopolitici dello Stato nordafricano non potevano passare inosservati alle mire espansionistiche dell’imperialismo francese che dalla fine del Secondo conflitto mondiale ad oggi non hanno mai smesso di essere tali. Tanto che, a riguardo, Nicolas Sarkozy ed Emmanuel Macron pari sono. Altro che Ventotene e ideale dell’Europa unita! Gli interessi di bottega non sono mai stati comunitari, ma sempre rigorosamente nazionali. Anche oggi, con i francesi che non perdono occasione per rammentarlo a tutti. Ora, sarà forse vero che Sarkozy, decretando l’uscita di scena cruenta di Gheddafi, abbia pensato di sbarazzarsi di un pericoloso testimone, ma la Storia con la esse maiuscola non può accontentarsi di questa spiegazione.
Nessun risvolto di quella impresa deve essere taciuto. A cominciare dalle responsabilità della parte italiana. Intanto, se Sarkozy ebbe buon gioco fu perché l’Italia glielo consentì. Quindi prima di cercare altrove gli artefici della nostra rovina cerchiamo in casa nostra i “traditori” che portarono il governo italiano a rinnegare il “Trattato di amicizia e cooperazione tra la Libia e l’Italia”, stipulato a Bengasi il 30 agosto 2008 e ad accodarsi alla muta di cani che braccarono fino a scovarla e ammazzarla la volpe Gheddafi. I fatti sono noti, non stiamo qui a ripeterli. E, soprattutto, sono sotto gli occhi di tutti le disastrose conseguenze che quell’aggressione d’oltremare ebbe sull’Italia. Ci piacerebbe però che il nuovo Parlamento si prendesse la briga, magari varando una commissione d’indagine ad hoc, di ricostruire la catena degli eventi che portarono il nostro Paese ad abbondonare Gheddafi e la Libia ad un atroce destino, attribuendone la responsabilità a chi l’ebbe. Non sarebbe tempo perso perché se è vero che con i “se” non si fa la storia è altrettanto vero che sono i “se” che aiutano a capire la Storia. E visto che siamo nel campo delle ipotesi ci permettiamo di riproporre qualche interrogativo rimasto inevaso.
Allora, se in quelle giornate convulse a Palazzo Chigi vi fosse stato un diverso Berlusconi, meno preoccupato di difendere i precari equilibri della sua maggioranza dagli attacchi concentrici dei suoi nemici, magari un Berlusconi in stile Craxi-a-Sigonella, pronto a dire a brutto muso ai partner europei: se provate ad attaccare la Libia schiero la flotta a largo di Tripoli, oggi quale storia racconteremmo dell’Italia? Ci sarebbero stati ugualmente nei nostri destini lo spread, Mario Monti, Elsa Fornero, la sinistra al governo, i Cinque Stelle, i diktat della signora Merkel, la Legge Severino e Cesano Boscone? La Storia non si fa con i “se”, ma sono probabilmente quei maledetti “se” che possono farci aprire gli occhi sul presente e sul futuro dell’Italia.
Aggiornato il 21 marzo 2018 alle ore 12:46